ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
Mentre Samuel Huntington profetizzava lo scontro tra civiltà, l’ascesa cinese alimentava il dibattito sul rapporto identitario e gerarchico tra i soggetti che si fronteggiano nell’arena internazionale, portando alla ribalta il tema del confronto con l’alterità (taxing, 他性). Il professor Lei Yi, dell’Istituto di storia moderna dell’Accademia cinese delle Scienze sociali, ha dedicato il suo intervento per ThinkINChina alla teoria postmoderna e post-colonialista nel contesto della modernità e della crescita cinese, criticando gli intellettuali cinesi aderenti alle cosiddette “Post-schools”. I circoli accademici cinesi da almeno due decenni si interessano al dibattito “postista”, combattuto da post-modernisti, post-colonialisti, post-confuciani, post-sinologi e incentrato – seppur con metodologie differenti – sulla marginalità, sulla subordinazione culturale e soprattutto sul power discourse occidentale.
La prima critica generale che Lei rivolge ai teorici post-colonialisti riguarda la legittimità della loro pretesa di essere la voce autentica del Terzo mondo. Molti di loro, pur avendo origini non-caucasiche e un background etnico e culturale in paesi asiatici o mediorientali, vivono da anni in Occidente e hanno posizioni di rilievo nell’accademia occidentale. È il caso dello stesso Edward Said. L’autore della monumentale opera “Orientalismo” ha a lungo criticato quegli studiosi occidentali che, nel loro studio dell’Oriente, si pongono come soggetti principali (zhuti, 主体), rispetto a tutto ciò che è Altro (tazhe, 他者), ovvero l’Oriente. In linea con l’approccio post-strutturalista e anti-essenzialista dei teorici post-colonialisti, Said ha affermato che l’Oriente è una costruzione occidentale, fondata su immagini distorte e alimentata da pregiudizi (pianjian, 偏见) culturali. Nella visione di Lei, però, la legittimità di Said quale voce del Terzo mondo è in parte limitata dal fatto che è anch’egli inestricabilmente integrato nell’accademia anglo-americana. Lo stesso padre fondatore del post-colonialismo sembra quindi sfruttare il suo background etnico e la sua critica all’eurocentrismo come “capitale accademico” per ottenere uno status di prestigio, pur essendo lontano dalle società di cui vuole essere il portavoce.
Secondo Lei la stessa declinazione cinese della teoria post-colonialista è contraddittoria, e persino dannosa per la società. Nel contesto cinese, infatti, il discorso post-coloniale sulla modernità (xiandai, 现代) è intimamente legato alla memoria storica del secolo dell’umiliazione e della fine dell’era imperiale. In Cina il termine modernità si richiama al processo di illuminazione e salvezza nazionale (jiuwang, 救亡) avviato alla fine del XIX secolo, quando il collasso della cultura classica cinese impose un cambiamento radicale di ciò che la teoria post-colonialista identifica con il Soggetto principale.
Per questo Lei parla di una “conversione (zhuanhuan, 转换) della conoscenza”, iniziata con le guerre dell’oppio e conclusasi con il Movimento del 4 maggio. Nel corso di questa evoluzione gli intellettuali cinesi hanno adottato la “lente” del Soggetto principale, ovvero l’Occidente con il suo bagaglio morale e culturale, e ne hanno interiorizzato così la prospettiva sulla Cina. Parallelamente a questa internalizzazione dei valori occidentali essi hanno anche involontariamente perseguito una “alterizzazione” della loro stessa cultura.
Il discorso cinese sulla modernità sarebbe quindi permeato da queste forme distorte di produzione dell’alterità secondo la narrativa illuminista dell’umanità universale, che porta gli intellettuali cinesi a usare erroneamente significanti occidentali per definire significati locali. La conversione della conoscenza avviene quindi attraverso un “trapianto orizzontale”, inteso come de-contestualizzazione del discorso illuminista in una Cina in piena crisi di identità. Da qui la mitizzazione della modernità occidentale e lo svilimento della Cina, che inizia a considerare se stessa l’Altro e ad auto-collocarsi nella periferia.
In risposta a questo fenomeno numerosi studiosi cinesi hanno accolto la teoria post-colonialista nel tentativo di de-costruire il discorso economico e culturale dell’élite dominante composta da “maschi bianchi” (baizhong nanxing, 白种男性). Lei paragona questo sforzo intellettuale a quello fatto dai teorici del femminismo, che hanno cercato di sradicare il power discourse insito nelle relazioni di genere del sistema patriarcale. Egli conclude però che tali paradigmi – soprattutto nell’era della globalizzazione –, finiscono per cadere nell’eccessiva semplificazione e nella contraddizione, in quanto i confini tra centro/periferia e tra forti/ deboli non seguono più linee etniche o di genere, ma diventano anzi sempre più sfumati e transnazionali.
Lei osserva inoltre come in Cina i sostenitori del paradigma post-colonialista (e in generale di quello post-modernista) siano ricaduti negli stessi errori di coloro che etichettano come post-colonialisti. Hanno infatti combinato un “contesto orientale” con un’ “autorevole prospettiva occidentale”, utilizzando la stessa impalcatura teorica e la stessa terminologia di Michel Foucault, Jacques Derrida, Fredric Jameson, Edward W. Said o Douwe W. Fokkema. Ricorrendo a termini quali struttura (jiegou, 结构), decostruzione (jiegou, 解构), discorso (huayu, 话语), simbolo (fuhao, 符号), codificazione (bianma, 编码), etc. si ritrovano anch’essi a utilizzare significanti occidentali per indicare significati locali.
La critica della modernità illuminista e del discorso eurocentrico perde quindi parte della sua legittimità, con una conseguenza potenzialmente negativa in termini non solo di legittimità intellettuale ma anche politica e sociale. A questo proposito Lei evidenzia una pericolosa distorsione dell’originale discorso post-colonialista all’interno della retorica nazionalista cinese. E’ interessante notare come i “falchi” cinesi impieghino tale discorso nel loro scontro ideologico con l’Occidente, a sostegno di una Cina dipinta ancora come vittima di intrusione e di colonizzazione.
Allo stesso tempo, sul piano intellettuale, questo fenomeno si traduce in un sostanziale annullamento della carica rivoluzionaria della teoria post-colonialista. In Cina, infatti, il postmodernismo e tutte le teorie “con caratteristiche cinesi” sono state castrate (yange, 阉割) e fagocitate nel mainstream. Il risultato è stato quindi l’esatto opposto di quello auspicato dagli studiosi post-colonialisti: il dissenso intellettuale e le cosiddette substream sono state marginalizzate a favore di una linea ufficiale, politicamente controllata.
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