[ThinkINChina] Il ruolo della Cina in Africa

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

 

Il nuovo ciclo di incontri di ThinkINChina è stato inaugurato da un’analisi delle politiche cinesi di assistenza e cooperazione in Africa proposta dal professor Li Anshan, esimio africanista della Peking University e vice direttore dell’Associazione cinese per gli studi sull’Africa.

Secondo Li, la cornice concettuale che ha ispirato le azioni cinesi in Africa ha una matrice profondamente diversa rispetto a quella che ancora oggi influenza la percezione occidentale del continente. Li contrappone l’immagine occidentale di un continente africano arretrato e bisognoso di aiuto, riflesso paternalistico del retaggio coloniale, alla consapevolezza cinese dei progressi compiuti negli ultimi cinquant’anni dal Continente nero, grazie al successo dei movimenti di liberazione nazionale e agli sviluppi sul piano della ricostruzione nazionale e dei diritti economici e sociali.

Ne deriva il rifiuto da parte cinese di un rapporto univoco donorrecipient – cui è sottesa l’idea di un filantropo condiscendente e civilizzatore che sostiene un ricevente umile e obbediente – a favore di un rapporto più simmetrico di partnership e beneficio reciproco. La Cina dunque rifiuta l’idea dell’Africa come “hopeless continent” (Economist, maggio 2000) e guarda ad essa e alle sue risorse – naturali ma anche umane e culturali – con fiducia e speranza. Quelli che Li identifica come princìpi guida della politica cinese in Africa sono il frutto di una evoluzione teorica dell’approccio cinese inaugurato nel 1963 sotto l’etichetta degli otto principi enunciati da Zhou Enlai nel corso di uno storico viaggio nel continente. Se negli anni ’60 rivoluzione e sviluppo erano ancora strettamente connessi nella strategia di politica estera cinese, dopo la riforma denghista, e in particolare con il XII Congresso del Partito comunista cinese (Pcc) del 1982, lo sviluppo economico svincolato dai dettami del maoismo divenne la guida dell’azione diplomatica cinese anche nei confronti del continente africano.

Il superamento della retorica anti-imperialista nei rapporti con il continente africano fu ufficializzato nel dicembre del 1982, quando Zhao Ziyang, segretario generale del Pcc, presentò i quattro principi sulla cooperazione sino-africana nel corso del suo viaggio in Africa: uguaglianza e rispetto reciproco (pingdeng huli, 平等互利), enfasi sui risultati pratici (jiang jiu shixiao, 講求實效), diversità nelle varie forme (xingshi duoyang, 形式多樣), sviluppo comune (gongtong fazhan, 共 同發展).

Gli anni Ottanta e Novanta videro dunque il progressivo consolidarsi di un nuovo rapporto tra la Cina e i paesi africani. La fine della Guerra fredda, e la conseguente interruzione della competizione tra le superpotenze in Africa, costringeva il continente africano in una posizione marginale nel sistema internazionale: il ridimensionamento della sua rilevanza strategica fu accompagnato da un decisa diminuzione degli investimenti esteri e dalla progressiva crescita del debito nei confronti dei paesi sviluppati e degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Banca mondiale. La Cina seppe adeguarsi a questi poderosi cambiamenti ricalibrando il modus operandi dei suoi aiuti al continente: il passaggio dall’antagonismo rivoluzionario maoista al binomio denghista della “pace e sviluppo economico”, sancito dal XII Congresso del Pcc, ebbe un riflesso diretto sulla politica estera cinese e in particolare sui rapporti tra Pechino e i paesi in via di sviluppo. Il nuovo pragmatismo della politica estera cinese, ispirato da esigenze interne di sviluppo economico, spinse Pechino a modificare i vecchi programmi di assistenza gratuita unilaterale – legati a logiche di promozione del proletariato internazionale – trasformandoli in rapporti di cooperazione bilaterale. Gli aiuti concessi a titolo gratuito vennero gradualmente sostituiti dalla creazione di joint ventures e da prestiti a tassi favorevoli, in un’ottica win-win che teneva conto del nuovo contesto della globalizzazione e dell’interdipendenza economica da essa prodotta.

La contestualizzazione storica dell’evoluzione della presenza cinese in Africa è essenziale secondo Li per sfatare il mito, costantemente promosso dal mainstream mediatico occidentale, di una nuova colonizzazione cinese in Africa. La ridefinizione del ruolo cinese in Africa risale infatti, secondo Li, al ripensamento denghista della grand strategy cinese: una revisione profonda che ha plasmato l’azione diplomatica di Pechino sin dall’inizio degli anni ‘80. Uguaglianza e rispetto reciproco, sviluppo congiunto, emancipazione economica e non-interferenza negli affari domestici, sono secondo Li i cardini sui quali la Cina deve continuare ad impostare i suoi rapporti con il continente africano. “What China is best at, what Africa needs the most”: la reciprocità dell’interesse alla collaborazione è, secondo Li, la base migliore per un rapporto duraturo.

Nonostante le formule di rito, tuttavia, Li ammette che la crescente presenza cinese nel continente africano ha messo a nudo negli ultimi anni notevoli contraddizioni. L’operato degli attori economici cinesi spesso contrasta con gli interessi della società civile locale e delle aziende africane concorrenti.

Alle inefficienze nelle strategie di investimento e alla riluttanza della manodopera locale a sopportare insostenibili standard lavorativi, si somma il dumping patito dalle aziende africane. Inoltre Pechino fatica a conciliare gli interessi nazionali con quelli economici delle aziende cinesi che operano in Africa, le quali sono per la maggior parte di proprietà o a partecipazione statale. Un caso recente, quello degli operai cinesi sequestrati in Sud Sudan, ha mostrato come la tutela dei lavoratori cinesi oltremare possa diventare un ostacolo per il successo degli investimenti in zone ad alta conflittualità. In casi come questo è la sicurezza nazionale cinese ad essere messa a repentaglio dagli stessi interessi economici cinesi, e dunque sta a Pechino trovare un modo per bilanciare queste esigenze.

Le contraddizioni riconosciute da Li non sembrano semplici disfunzioni estemporanee. L’influenza politica ed economica della Cina ha raggiunto dimensioni tali da rendere desueti i principi tradizionali dello sviluppo congiunto e della non interferenza negli affari interni dei paesi partner. Sebbene i principi di Zhao Ziyang continuino ancora oggi a trovare credito, l’intervento cinese in Africa dovrà necessariamente trovare un nuovo equilibrio e una nuova narrazione.

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