[ThinkINChina] La Cina e la guerra in Libia

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

 

Il 29 settembre ThinkINChina ha ospitato un dibattito sul ruolo della Cina in Libia, e sui possibili riflessi della guerra in Libia sul versante dei rapporti tra la Cina e l’Europa. A ispirare il dibattito è stata Huang Jing, una brillante ricercatrice del prestigioso China Institute for Contemporary International Relations (Cicir), esperta di rapporti tra Cina ed Europa.

Huang Jing ha articolato la sua analisi in due parti: nella prima si è concentrata sul modo in cui i media cinesi hanno affrontato la guerra in Libia, nella seconda su un’analisi della diplomazia cinese utile per cogliere le linee essenziali della politica di Pechino nell’area e i suoi possibili sviluppi futuri.

La stampa cinese ha inquadrato la guerra in Libia in maniera diametralmente opposta al mainstream mediatico occidentale: per i media cinesi è evidente come l’aspetto normativo – quello alla base dell’intervento umanitario della Nato in difesa della popolazione civile – sia un aspetto quasi irrilevante, amplificato dalla propaganda per occultare le ragioni vere dell’intervento, ossia quelle legate al controllo delle risorse petrolifere e all’estensione dell’influenza geopolitica della Nato nell’Africa del nord e nel Mediterraneo. Per questa ragione i media cinesi tendono a distinguere la guerra in Libia dagli avvenimenti della “Primavera araba”, sottolineando il ruolo svolto nel conflitto da Washington, deus ex machina dell’Alleanza Atlantica.

Questo modo di inquadrare il conflitto libico trova riscontro anche nell’opinione pubblica cinese spesso influenzata dalle interpretazioni più radicali, come quelle di Zhang Zhaozhong (张召忠) docente della National Defense University, che, dagli schermi della televisione di stato, ha stigmatizzato la guerra in Libia come un’operazione indirettamente rivolta contro Pechino. Nonostante ciò, fino ad oggi la leadership cinese ha seguito nei confronti della crisi libica una politica decisamente pragmatica e flessibile che si è sviluppata attraverso tre fasi. Nella prima fase – quella dell’inizio delle ostilità a partire dalla risoluzione Onu 1973 del 17 marzo, e dell’immediato intervento della Nato – Pechino ha cercato di non esporsi troppo, motivando la sua astensione al Consiglio di Sicurezza come un gesto di considerazione nei confronti delle volontà espresse dalla Lega Araba e dall’Unione Africana, ma esprimendosi al contempo a favore di un immediato cessate il fuoco. Con l’accentuarsi dei combattimenti, Pechino ha attuato una politica di “double-hedging”, mantenendo rapporti diplomatici con il governo di Gheddafi e avviando contemporaneamente contatti con le forze di opposizione: una premessa del progressivo cambiamento di fronte realizzato dal governo cinese in agosto – dopo l’entrata a Tripoli delle forze di opposizione a Gheddafi sostenute dalla Nato – e conclusosi il 12 settembre con il riconoscimento ufficiale del Comitato Nazionale di Transizione come rappresentante ufficiale del popolo libico.

Huang Jing spiega la tortuosità della posizione cinese sulla situazione libica come il frutto del dibattito in corso all’interno del paese sul tipo di strategia globale da adottare nei prossimi anni. Se da un lato Pechino è spesso percepita in Occidente come un gigante economico restio ad assumersi le responsabilità politiche che il suo peso nel sistema internazionale – e il suo seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – richiederebbero, è anche vero che i notevoli problemi sociali legati alla sua rapida crescita spingono il paese a concentrarsi sui suoi problemi interni e a considerare le regioni limitrofe, e in particolare l’Asia orientale, come prioritarie per la sua azione diplomatica. Memori probabilmente dell’esperienza sovietica, i cinesi sembrano restii a impegnarsi direttamente in un’area lontana come quella “Wana” (West Asia and Northern Africa, ossia Asia occidentale e Africa settentrionale, secondo la categorizzazione del ministero degli esteri cinese) per timore di sovraesporsi e indebolirsi sui fronti più sensibili per la loro sicurezza.

La situazione tuttavia spinge verso un mutamento di rotta da parte di Pechino. L’Europa, lacerata dalla crisi del debito e bisognosa di mantenere la stabilità nei paesi limitrofi del bacino del Mediterraneo, ha, secondo Huang Jing, grande bisogno di cooperare con Pechino. La visita inattesa di Sarkozy a Pechino a fine agosto ne è una conferma.

In un recente articolo del China Daily scritto a quattro mani con Li Shaoxian, il vice-presidente del Cicir, Huang Jing propone un’interessante analisi del ruolo che Pechino potrebbe svolgere in quest’area. L’analisi parte dalla lettura della “Primavera araba” come terza ondata del “rinascimento” arabo dopo le rivoluzioni nazionali democratiche degli anni ’50 e ’60 (come quella di Nasser in Egitto), e il revival islamico degli anni ’70 e ’80 ispirato da Jamal-al-Din Afghani.

“Le rivolte arabe degli ultimi mesi non sono soltanto una lotta contro le disparità economiche e l’ingiustizia sociale” – scrivono gli autori – “ma anche una lotta per l’identità e la dignità. È lo sforzo dei popoli arabi verso la modernità, il tentativo di ritrovare il loro posto legittimo nel mondo”. Secondo Li Shaoxian e Huang Jing, la modernità verso la quale si muovono questi popoli sarà diversa da quella occidentale fondata sull’industrializzazione, la democrazia politica, lo stato sociale moderno e il secolarismo. Sarà invece una delle tante versioni della modernità che caratterizzeranno la civiltà globale nel futuro, in cui le tradizioni culturali e religiose avranno un ruolo importante nel plasmare il processo di decentralizzazione del potere dal vertice alla base. Per rafforzare questo processo, ed evitarne pericolose derive, la Cina, scrivono gli autori, aiuterà a fondo questi paesi nei prossimi anni.

La Cina ha l’esigenza di preservare le forniture energetiche, la sicurezza delle rotte marine e i suoi interessi oltremare e dunque è propensa a mantenere la stabilità nell’area e a partecipare della sua prosperità. Ma da sola non può mantenere la pace nella regione e ha bisogno di Stati Uniti ed Europa, attori che peraltro sembrano condividere molti dei suoi interessi. Vista la mancanza di fiducia reciproca una cooperazione trilaterale su larga scala al momento è impensabile ma, suggeriscono gli autori, si potrebbe iniziare con piccoli passi come ad esempio la creazione di un “business-friendly environment” in Libia o la collaborazione sui piani di ristrutturazione industriale e agricola in Egitto.

“Quando i paesi ritornano sul loro percorso economico”, ha scritto Li Shaoxian in un illuminante lavoro, “la tecnologia, il capitale e l’esperienza di sviluppo cinesi hanno dei vantaggi incomparabili”.

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