ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
L’orizzonte ideale degli alfieri della globalizzazione è da sempre la creazione di uno spazio mondiale in cui il commercio tra paesi si risolva in un reticolato di connessioni interdipendenti e solidi legami di mutui interessi che, imbrigliando nazionalismi e particolarismi, conducano il mondo verso una pace perpetua e profittevole. La fiducia che anima questo progetto di neutralizzazione delle pulsioni belliche attraverso la creazione di un unico libero mercato sembra però vacillare oggi di fronte alle tensioni che emergono nella regione-traino della globalizzazione, l’Asia orientale, e in particolare tra due protagonisti fondamentali, Cina e Giappone. Come ha evidenziato nel suo intervento al forum di ThinkINChina il prof. Gui Yongtao, esperto in materia della Peking University, i rapporti sino-giapponesi mettono a dura prova l’idea della pax mercatoria. Se, da un lato si assiste a un progressivo rafforzamento dell’interdipendenza economica – l’interscambio commerciale è raddoppiato negli ultimi dieci anni e dallo scorso dicembre è regolato nelle rispettive valute nazionali e non più in dollari – dall’altro, le tensioni diplomatiche e le frizioni politiche tra i due protagonisti dello sviluppo asiatico – le due più grandi economie mondiali dopo gli Stati Uniti – si sono progressivamente inasprite. Questa divaricazione tra interdipendenza economica e freddezza politica è essenzialmente alimentata, secondo Gui, da tre fattori: le irrisolte dispute territoriali, la percezione di minacce latenti alla sicurezza nazionale, e il mancato superamento di una forte avversione reciproca radicata in particolare nella storia del ‘900.
Le questioni territoriali riguardano principalmente un gruppo di isolotti disabitati siti tra Taiwan e il Giappone – chiamati Senkaku dai giapponesi e Diaoyu dai cinesi – che si trovano sotto l’amministrazione di Tokyo ma sui quali Pechino rivendica la propria sovranità. Questa disputa, al di là delle argomentazioni nazionalistiche, è principalmente legata al controllo e allo sfruttamento delle risorse ittiche e energetiche di cui sono ricchi i fondali marini delle aree contese e di cui sia Pechino che Tokyo hanno necessità per sostenere il proprio sviluppo. La tensione tra i due paesi si è intensificata nel 2010 dopo il sequestro da parte di Tokyo di un peschereccio cinese e l’arresto del suo capitano accusato di violazione delle acque territoriali giapponesi. La querelle è ripresa intorno alla metà di aprile quando il Global Times ha riportato in toni allarmisti la decisione del Governatore di Tokyo Shintaro Ishihara di comprare le isole contese tramite donazioni dei cittadini.
Queste tensioni territoriali si inseriscono in un fragile e complesso sistema di sicurezza regionale che non ha ancora prodotto un’architettura strutturata capace di assorbire e diluire i potenziali conflitti. I sistemi di cooperazione multilaterali promossi da Washington e nei quali partecipa anche la Cina – come il dialogo esapartito sulla denuclearizzazione della Corea del Nord – rappresentano, sottolinea Gui, il versante di engagement della strategia americana nei confronti di Pechino. All’engagement Washington affianca tattiche deterrenti e di containment per lo più fondate sul sistema di alleanze bilaterali con alcuni tra i paesi più sensibili alla poderosa e rapida ascesa regionale della Repubblica popolare cinese (Rpc). L’intesa con il Giappone, approfonditasi a partire dagli anni ’90 in seguito alla crisi dello Stretto di Taiwan e a quella del nucleare nordcoreano, è senza dubbio il più importante tra questi.
Il Giappone sembra aver adottato una politica di hedging meno articolata di quella americana, alternando in maniera più distinta la cooperazione in materia economica alla diffidenza in ambito politico-militare: “cool politics, warm economics”. Le interazioni economiche hanno infatti determinato uno scenario win-win soprattutto a partire dal 2002. Le esportazioni verso la Cina hanno infatti contribuito alla ripresa economica del Giappone dopo un decennio di stagnazione. Da parte sua Tokyo ha fornito alla Cina due tra i principali ingredienti del suo sviluppo economico: capitali e tecnologia. Questa complementarietà ha quindi permesso a Tokyo e Pechino di continuare a fare affari anche in fasi politicamente difficili, come quella dell’amministrazione Koizumi, più vicina alle posizioni della destra nazionalista nipponica.
Pechino tuttavia continua a percepire l’alleanza nippo-americana come una minaccia per la propria sicurezza. Per disinnescarla propone un suo new security concept, incentrato sulla fiducia e i benefici reciproci tra gli attori della regione (al quale tuttavia pochi sembrano prestar fede al momento). Gli analisti cinesi sono molto critici nei confronti delle strategie di hedging promosse da Washington, sostenendo che sono fondate su una percezione della Cina come potenza minacciosa e destabilizzante che ricorda le strategie di containment nelle fasi più acute della Guerra Fredda.
La Storia ha un ruolo cruciale soprattutto nei rapporti tra Pechino e Tokyo. È un “passato che non passa” e a volte sembra non voler passare a causa dei giochi della politica attuale. “The clash of histories”, secondo la definizione di Gui, ossia la manipolazione della narrazione storica che alimenta i nazionalismi da entrambe le parti, è all’origine della diffidenza reciproca tra i due popoli. Questa “politica della memoria” declinata in chiave nazionalistica è un grande ostacolo allo sviluppo delle relazioni bilaterali.
Due nodi storici sono emblema di questo scontro tra “storie opposte”: il tempio Yasukuni e la questione dei libri di testo. Il tempio Yasukuni, simbolo della memoria bellica del Giappone, è il luogo dove riposano le spoglie dei soldati che hanno dato la vita per difendere l’imperatore durante la Grande Guerra dell’Asia orientale (come i giapponesi denominano la sequenza di conflitti che va dal 1937 al 1945), tra cui i 14 criminali di guerra di “classe A” (condannati per crimini contro la pace). Le visite del premier Yasuhiro Nakasone nel 1985 e, soprattutto, di Junichiro Koizumi dal 2001 al 2006 hanno scatenato le ire di cinesi e coreani che considerano il revisionismo nipponico un’offesa alla propria memoria storica e una minaccia alla stabilità della regione. L’altro episodio che ha incendiato gli animi è stata la pubblicazione in Giappone di alcuni libri di testo per l’insegnamento della storia da cui emerge chiaramente una rivisitazione in chiave negazionista del violento passato imperialista di Tokyo.
Il revisionismo nipponico suscita un acuto risentimento in Cina, dove la memoria collettiva guarda al genocidio attuato dai giapponesi negli anni dell’invasione del territorio metropolitano cinese (1932-45) come alla più profonda e umiliante ferita dello spirito nazionale. Se la “mentalità della vittima” ha un suo fondamento storico reale, la leadership cinese l’ha spesso utilizzata come fonte di legittimazione al posto del marxismo- leninismo tramontante. Come ha sottolineato Zheng Yongnian, nella Cina post-maoista l’unità nazionale si univa alla stabilità politica e allo sviluppo economico per definire l’agenda del nazionalismo ufficiale comunemente inteso come “patriottismo (爱国主义, aiguozhuyi). Al patriottismo ufficiale si è andato affiancando negli ultimi venti anni un nazionalismo popolare molto più aggressivo nei riguardi dell’Occidente e degli antagonisti regionali, creando una constituency minacciosa che il Partitio comunista cinese (Pcc) ha cercato di cooptare attraverso un abile uso della “mentalità della vittima”. Si tratta ovviamente di una manovra molto delicata che rischia di portare, da una parte, a pericolose fughe in avanti a livello di massa, come hanno dimostrato le grandi manifestazioni anti-giapponesi degli ultimi anni, e, dall’altra, di complicare ulteriormente il dialogo con Tokyo.
Le relazioni sino-giapponesi sembrano quindi procedere su un doppio binario: i crescenti legami economici e finanziari aumentano l’interdipendenza tra i due paesi, mentre la retorica politica e la memoria storica spingono in direzione opposta. È un dilemma esplosivo che continua a compromettere uno dei principali assi della politica internazionale. La recente nomina di Yoshihiko Noda a premier del Giappone non ha certo contribuito a calmare le preoccupazioni di Pechino – specie dopo le sue affermazioni sui criminali di guerra del tempio Yasukuni e sul ruolo della Cina in Asia. La nuova leadership, che emergerà dal XVIII congresso del Pcc in ottobre, dovrà necessariamente affrontare questi nodi con strumenti e parole nuove. Se riuscirà a farlo, le porte per una nuova pax mercatoria torneranno nuovamente ad aprirsi.
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“For the Trump administration, China’s being defined not as a rival, but as an enemy. It would be interesting to understand the effect of... Read More
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