ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.
Dal 1993 la Cina è importatrice netta di petrolio e da allora ha abbandonato il sogno maoista dell’autosufficienza energetica, che per decenni era stato il cardine delle politiche energetiche di Pechino. Nel 2009 la Cina ha poi superato gli Stati Uniti, diventando il maggiore consumatore di energia al mondo e, ad oggi, la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio si avvicina a quota 60%. Il mantenimento di ritmi di crescita economica sostenuti, le pressioni di una classe media emergente che va mutando stili di consumo, e la tutela della stessa sicurezza nazionale hanno reso negli ultimi decenni la sicurezza energetica una priorità assoluta del governo cinese. A questo tema è stato dedicato l’evento di aprile di ThinkINChina, che ha ospitato il prof. Jorgen Delman (Copenhagen University) e Deng Liangchun (Senior Officer of Climate & Energy Programme, WWF China).
Intorno alla fine degli anni ‘90 la definizione tradizionale di sicurezza energetica – forniture sufficienti a costi accettabili – è stata rimessa in discussione, nel contesto del dibattito tra i teorici del realismo nelle relazioni internazionali (che leggono la scarsità di risorse energetiche come fattore rischio strategico) e quanti ritengono preferibile un approccio di liberalismo energetico (i quali concepiscono l’energia come una commodity, sicché la sicurezza è determinata dal funzionamento del libero mercato). L’approccio di Pechino alla sicurezza energetica sembra però distanziarsi progressivamente da entrambe queste letture in virtù di alcune caratteristiche peculiarmente cinesi che lo contraddistinguono, prima tra tutte il concetto di 节约社 会, jieyue shehui (“conservation-minded society”), parte della più ampia dottrina dello “sviluppo scientifico” (kexue fazhanguan, 科学发展观).
L’equazione tradizionale della sicurezza energetica si fonda infatti su tre fattori: il primo è l’accesso a forniture energetiche sufficienti che garantiscano non solo la crescita economica ma anche, e di conseguenza, il potenziamento del dispositivo militare, precondizione dello status di grande potenza. Come ha dichiarato Li Junru, ex vice presidente della Scuola centrale del Partito comunista cinese (Pcc), il fattore più importante dell’“ascesa pacifica” della Cina non è la questione di Taiwan ma la competizione globale per le risorse energetiche. Il secondo fattore riguarda invece i prezzi dell’energia sul mercato interno, i quali devono essere sufficientemente bassi da consentire di mantenere la stabilità sociale (soprattutto nel caso di gruppi-chiave come gli agricoltori o i tassisti), e allo stesso tempo abbastanza alti da non danneggiare i produttori e i raffinatori nazionali. Il terzo aspetto riguarda, infine, la sicurezza dell’approvvigionamento dell’energia. Al momento la Cina non ha le capacità militari necessarie a proteggere le vie di transito marittime: questa è una grande vulnerabilità strategica, che espone Pechino al rischio di un’interruzione dei flussi di importazioni e la rende dipendente dalla Marina militare statunitense per la sicurezza delle rotte di navigazione dell’Asia sudorientale. Nel 2006 fu lo stesso presidente Hu Jintao a parlare del “dilemma di Malacca”, il braccio di mare che collega l’Oceano Indiano a quello Pacifico e che costituisce il principale punto di transito delle rotte commerciali tra l’Europa e il Medio Oriente e i paesi del sud-est asiatico. Il fatto che da questo corridoio passi l’80% del petrolio destinato all’Asia settentrionale (principalmente la Cina) lo rende strategicamente vitale per Pechino, che, oltre a perseguire una strategia di diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico, ha accelerato il potenziamento del dispositivo navale puntando allo sviluppo di una marina “blue water”, capace di operare in scenari oceanici e non solo costieri. A ciò si aggiungono le controversie territoriali in corso nel Mar cinese meridionale e orientale, che costituiscono per la Cina una potenziale minaccia della sicurezza delle rotte di approvvigionamento energetico.
In questa equazione, però, sono comparsi altri due elementi che ne alterano radicalmente il risultato. Per la Cina, così come per il resto del mondo, il rapporto tra crescita economica e sicurezza energetica non può più prescindere dalla questione della sicurezza ambientale, che nella fase iniziale del boom economico cinese (fondata sull’impiego su larga scala del carbone) è stata drammaticamente trascurata. I costi legati al cambiamento climatico, all’inquinamento, ai rischi per la salute e alle conseguenze ambientali di questo modello di crescita stanno diventando per il governo cinese sempre più ingiustificabili, in termini sia economici che sociali. In questo trade-off tra crescita, sicurezza energetica e sicurezza ambientale Delman ha identificato la ratio delle misure previste dal XII Piano quinquennale, varato nel 2011. I target prefissati in termini di riduzione dell’intensità energetica (-16%), di riduzione della cosiddetta “carbon intensity” (-17%), e di aumento della quota di fonti di energia rinnovabili (+11,4%), sono segno della consapevolezza del governo cinese circa l’urgenza di passare a un modello di crescita più sostenibile.
La seconda “caratteristica cinese” dell’approccio alla sicurezza energetica è costituita da fattori interni, che scaturiscono in parte dalla frammentazione del processo decisionale in materia energetica e in parte dall’elevata politicizzazione e centralizzazione della politica energetica del paese, legata a doppio filo alla crescita economica e quindi alla legittimità stessa del Pcc. Il dominio delle State-Owned Enterprises (SOEs) e il potere del Partito al loro interno impediscono al mercato di determinare il livello dell’offerta, dei prezzi e della distribuzione di energia. Gli asset delle SOEs sono controllati dalla State Asset Supervision and Administrative Commission (Sasac), soggetta alle istruzioni dei ministeri competenti e a sua volta supervisionata dal Consiglio degli Affari di Stato, l’organo esecutivo della Rpc. Come suggerito anche da Zha Daojong (Peking University), è lo stesso approccio stato-centrico – a causa delle inefficienti pratiche di raffinazione e distribuzione, cui si aggiungono sussidi e incentivi come elementi di distorsione nella determinazione dei prezzi – a produrre insicurezza energetica. Al contrario, una liberalizzazione e apertura del mercato dell’energia cinese a società estere aumenterebbe l’efficienza e accrescerebbe anche la sicurezza energetica, dando maggiori garanzie di forniture stabili.
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