[ThinkINChina] Le religioni in Cina

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

 

Gli studiosi cinesi tendono spesso a trovare negli studi occidentali sulla Cina debolezze concettuali, frutto di pregiudizi e distorsioni cognitive, che ne inficiano l’accuratezza scientifica. Durante l’ultimo appuntamento di ThinkINChina, il professor Lu Yunfeng, del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Pechino, ha gentilmente mostrato al pubblico alcune di queste approssimate letture occidentali del fenomeno religioso in Cina. Lu sostiene infatti che l’immagine tradizionale, diffusasi in Occidente a partire dalle missioni gesuite, di una Cina rigorosamente “secolare” non ha concreto fondamento storico.

Furono i gesuiti, sostiene Lu, ad accreditare in Europa l’immagine di una Cina ispirata da un’etica “civile” di derivazione confuciana, una “religione civile” fondata su riti controllati e imposti dall’alto da un’elite di pubblici ufficiali. Questa immagine si addiceva perfettamente ad un’Europa in cui la nascente cultura illuminista avrebbe fondato la sua “modernità” su un nuovo rapporto tra Stato e Chiesa. In questo rapporto la Cina, “l’Altro” per eccellenza, si poneva come modello di ispirazione immaginaria, come un luogo immune alle tentazioni metafisiche e religiose, un paese in cui le principali appartenenze di credo erano frutto di importazione – come il buddismo – o di deviazioni di antiche filosofie – come il taoismo.

La Cina tuttavia, sottolinea Lu, è sempre stata un “luogo dello spirito”: già ai tempi della dinastia Zhou (III sec. a.C.) si parlava di Cina come di 神州 (shenzhou) ossia di “terra divina” o “terra degli spiriti”. Né si può trascurare il fatto che in Cina vi siano oggi più musulmani che in tutta Europa, più protestanti che nel Regno Unito, più cattolici praticanti che in Italia e oltre 100 milioni di buddisti. Le principali religioni – oggi tutelate anche a livello costituzionale – e le religioni popolari hanno resistito anche alle violente campagne anti-religiose dei primi anni della Repubblica popolare quando la religione era considerata un retaggio feudale, simbolo dell’inquinamento spirituale del colonialismo occidentale. Gli anni del Grande balzo (1958-60) e della Rivoluzione culturale (1966-76) furono particolarmente cruenti nella loro opera repressiva, specie nei confronti di quelle religioni popolari che, enfatizzando la solidarietà comunitaria e la propria autonomia, mettevano a repentaglio la coscienza di classe e l’attuazione delle politiche socialiste. Lo stesso Mao, nel corso di uno dei sui viaggi nella sua provincia natale dello Hunan, rimase sorpreso dalla violenza iconoclasta che aveva cancellato templi e simboli di una religione di cui, avrebbe detto il grande timoniere, “la gente sentiva ancora il bisogno”.

L’apertura e la riforma denghista fece cadere nel dimenticatoio la follia distruttiva degli anni ’60. La direttiva n. 19 del Comitato centrale del Partito comunista emanata nel 1982 inaugurò un nuovo regime di protezione e di “tutela” dello Stato nei confronti dei movimenti religiosi. Lo Stato oggi tutela e riconosce la religione e il suo ruolo sociale ma controlla che essa non tracimi dalla sfera spirituale a quella politica o, come dichiara esplicitamente la Costituzione, “non sia soggetta ad alcun controllo estraneo”. Celebre a questo proposito è il caso della 法轮功 (Falungong), un movimento spirituale fondato sul 气 功 (qigong) e molto popolare negli anni ’90, entrato in conflitto con il Partito quando la sua missione – progressivamente estesasi, secondo la leadership cinese, dal campo della salvezza spirituale a quello della trasformazione politica – e la sua dimensione (la maggior parte delle fonti stima in circa 60 milioni gli aderenti al movimento) sembrarono mettere in pericolo gli equilibri politici del paese.

Nonostante la supervisione esercitata dalle autorità (anch’esse non immuni da affiliazioni di credo, sebbene sotto-traccia) la Cina resta oggi un paese in grande fermento spirituale. Se circa l’80% dei cinesi si dichiara non legato ad alcuna religione, quasi la metà di fatto pratica il culto degli antenati e oltre il 50% dichiara di credere negli spiriti, negli dei o in Buddha. Si tratta dunque di una società ampiamente pervasa dalla spiritualità, anche se in forme e gradi diversi. Tra le cinque religioni ufficialmente riconosciute – buddismo, taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo – il buddismo è senza dubbio quella più popolare nella Cina di oggi, soprattutto tra le classi urbane e intellettuali. Emblematica, a questo riguardo, è la popolarità riscossa dalla storia del giovane laureato dell’Università di Pechino, Liu Zhiyu, promessa della matematica cinese, divenuto famoso per aver preferito la vita monastica in un tempio buddista a una prestigiosa offerta del MIT di Boston.

Se il buddismo vive nelle città e tra le élite, la religione popolare resta la più diffusa nel resto del paese. Si tratta della sintesi di alcuni elementi quali il pellegrinaggio (Chaosheng 朝圣), la geomanzia (Kanfengshui 看风水), il possesso degli spiriti (Shenling futi 神灵附体) e la predizione del futuro (Suanming 算命), tuttora fortemente radicati nella società. Sono lontani i giorni delle repressioni degli anni ’50 e ’60: la religione popolare non è più un “retaggio feudale” agli occhi del Partito e si è ormai guadagnata lo status di 非物质文化遗产 (Feiwuzhi wenhua yichan, ossia “patrimonio culturale immateriale”).

Lu ha sottolineato, tuttavia, come in ascesa siano soprattutto le religioni ufficiali: l’urbanizzazione e la sempre maggiore apertura da parte del Partito tende a favorirle a scapito delle pratiche di religiosità popolare. Tipico il caso dei 民工 (mingong), i giovani migranti cinesi che, arrivati in città dalle campagne, trovano nella spiritualità e nell’affiliazione religiosa una preziosa fonte di stabilità e di senso comunitario. Qualcosa d’analogo è accaduto in Corea del Sud e a Taiwan. Anche lì, in un primo tempo, le pratiche restrittive imposte dalle autorità portarono le religioni popolari a occupare lo spazio della spiritualità “privata” delle famiglie. Successivamente, con la deregulation religiosa della fine degli anni ‘80, si è verificata una crescita capillare del buddismo e del taoismo.

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