[ThinkINChina] Lotta alla corruzione e tradizione confuciana

ThinkINChina ha ospitato questo mese un dibattito sul tema della corruzione nella Repubblica popolare cinese (fubai, 腐败), introdotto da un intervento di Kate Westgarth, diplomatico di carriera e specialista di Cina per il Foreign Office britannico.

La Westgarth è partita dalla distinzione tra il concetto di corruzione comunemente inteso nel pensiero occidentale e quello tipico della tradizione confuciana. Il primo, fondandosi sull’assunto che le società funzionino tutte in modo analogo, ritiene che la corruzione possa essere controllata attraverso lo stato di diritto (rule of law), l’indipendenza del sistema giudiziario, la trasparenza dell’attività di governo e una supervisione esercitata dall’opinione pubblica e dai mezzi di informazione sui detentori del potere pubblico.

La tradizione orientale – e in particolare quella confuciana – si concentra, invece, sull’importanza dell’armonia sociale garantita dalle gerarchie e dalle relazioni personali: il governo della morale, dunque, contrapposto a quello fondato sulla legge, tipico della tradizione universalista occidentale e tradizionalmente associato al concetto di pena. Secondo l’approccio confuciano, l’idea di pena tipica dell’Occidente è controproducente e rischia di turbare l’armonia sociale; come recita un antico adagio: “Se il governante è virtuoso lo sarà anche il popolo”.

Diversi studiosi cinesi – per lo più vicini all’ala sinistra del Partito Comunista – hanno recentemente criticato l’approccio confuciano, accusandolo di favorire il diffondersi di una cultura della corruzione. Principale oggetto di biasimo, secondo il filone che si rifà al pensiero di Pan Wei dell’Università di Pechino, è il passaggio 13:18 del libro dei Dialoghi di Confucio (论语) che esorta padri e figli a proteggersi a vicenda dal rischio che i crimini da loro commessi possano essere scoperti e comportare una punizione. Il secondo aspetto contestato alla tradizione confuciana è l’ossequio acritico ai membri della Shizu (士族ossia l’aristocrazia mandarina cinese da cui provenivano gli ufficiali governativi), i cui errori – “come le eclissi del sole e della luna” – non avrebbero impedito loro di continuare a splendere.

Il dibattito non è fine a se stesso. I dirigenti cinesi sanno bene che la corruzione diffusa mina alle fondamenta la legittimità del potere politico e può determinarne il crollo. Non mancano gli esempi storici: la sconfitta dei Qing nella seconda Guerra dell’oppio nel 1860 viene attribuita alla distrazione dei fondi che erano stati stanziati per l’equipaggiamento militare e che vennero invece usati per le celebrazioni del compleanno dell’imperatrice Cixi.

Il Partito comunista cinese (Pcc) ha lanciato campagne contro la corruzione a varie riprese, in particolare nel 1951-52 e 1963- 65, con l’obiettivo di creare una classe di burocrati irreprensibili e impegnati esclusivamente a “servire il popolo”. Né bisogna dimenticare che il malcontento per la corruzione diffusa tra i membri del partito fu uno dei fattori determinanti dell’esplosione del movimento di protesta di Tienanmen nel 1989.

Il Pcc è dunque da sempre molto sensibile a questo tema, anche se è consapevole di non poter usare misure troppo draconiane per contrastarlo, vista la diffusione del fenomeno nelle sue stesse fila. “Se non combatti la corruzione a sufficienza rischi di distruggere il Paese, ma se la combatti con troppa forza rischi di distruggere il Partito”, sottolineava Chen Yun, uno dei leader fondatori della Rpc. È difficile fare una stima dell’entità del fenomeno nella Rpc.

L’avvio delle riforme economiche negli anni ’80 del secolo scorso favorì una subitanea diffusione della corruzione tra i pubblici ufficiali, che dovrebbe, invece, essere diminuita dal 2000 in poi. La situazione rimane in ogni caso ancora critica. Il Carnegie Endowment for International Peace stima che la percentuale di risorse pubbliche dispersa in forma di tangenti possa raggiungere il 10% del totale; la stessa Corte Suprema cinese segnala come dal 2007 a oggi la media delle tangenti per le quali funzionari governativi sono stati portati in giudizio è salita da 2,5 milioni di renmimbi (circa 276.000 euro) a 8,84 milioni (poco meno di un milione di euro).

Per contrastare il fenomeno, il Partito sembra oggi attuare una strategia “sincretica” che fonde l’approccio confuciano, fondato su moral suasion e campagne educative – come nel caso della campagna quinquennale contro la corruzione avviata nell’aprile del 2008 -, con quello occidentale imperniato su regole certe, come quelle stabilite nel corso del Quarto Plenum del XVII Congresso del Pcc tenutosi nel settembre del 2009. Nel corso del Plenum il partito ha stilato un codice etico per i suoi quadri basato su 52 capitoli nei quali si identificano i comportamenti considerati “corrotti” e le sanzioni disciplinari o penali previste in caso di violazione: è vietato ad esempio accettare doni, agevolare parenti o amici o avere partecipazioni in società o attività finanziarie.

Diversi osservatori ritengono che il codice etico sia solo un passo formale e non abbia concreta possibilità di essere attuato: alcuni casi di sospette attività illegali, come quelli che hanno coinvolto recentemente i figli del Premier Wen Jiabao e persino del Presidente Hu Jintao, sembrerebbero suffragare questo scetticismo. È da notare, tuttavia, che diverse vicende di corruzione di pubblici ufficiali sono state oggetto di notevole copertura mediatica. Proprio sul ruolo dei media di supervisione/denuncia si gioca la partita tra coloro che puntano a una ferma repressione del malcostume e quanti sono per una maggiore tolleranza. Da una parte, la leadership incoraggia la pubblicazione di notizie su episodi di corruzione a livello locale, dall’altra punisce i giornalisti che con le loro inchieste lambiscono i vertici dell’apparato politico.

Secondo la Westgarth, dunque, la ricetta dell’Occidente per la lotta alla corruzione – basata su un sistema giudiziario indipendente dal potere politico, sullo stato di diritto e su media indipendenti – è ancora ben lontana dall’essere fatta propria dal Pcc. Resta dunque da capire se la “strada cinese” alla lotta contro la corruzione riuscirà a generare nei prossimi mesi più risultati di quanti ne abbia prodotti fino ad oggi. Come ebbe a scrivere Tocqueville, “per un cattivo governo il momento più pericoloso è sempre quello in cui comincia a riformarsi”.

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