La questione della (mancata) rivalutazione dello yuan ha dominato anche il vertice Asia-Europe Meeting (Asem) e quello Ue-Cina che si sono tenuti a inizio mese a Bruxelles. Ma è stato un nulla di fatto: Pechino è rimasta tetragona alle richieste europee di rivalutare la sua moneta, al punto che la prevista conferenza stampa al termine dell’incontro è stata cancellata. L’esito dell’incontro conferma le difficoltà che incontra l’Unione a ottenere dai cinesi risposte positive e concrete alle proprie istanze (e viceversa). Più in generale, il rapporto con la Cina è divenuto cruciale per la difesa degli interessi dell’Unione e per la legittimazione delle sue ambizioni globali. Sembra esserne consapevole l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Catherine Ashton che, non a caso, ha nominato il tedesco Markus Ederer capo della delegazione Ue a Pechino.
La Cina rappresenta il secondo mercato per le esportazioni dell’Ue, e l’Unione è il principale fornitore di importazioni per la Cina: la cooperazione economica e commerciale occupa quindi un posto centrale nell’agenda bilaterale. Come ha dichiarato il Commissario al Commercio Karl De Gucht nel suo saluto all’EXPO di Shanghai, le due parti hanno un “forte interesse reciproco” ad “assicurarsi che la nave dell’economia mondiale stia alla larga dagli scogli”. De Gucht ha menzionato tre punti che stanno a cuore all’Europa: 1) l’aumento reciproco degli investimenti esteri diretti (gli investimenti europei in Cina rappresentano solo il 2-3% degli investimenti esteri dell’Unione); 2) l’apertura del mercato delle forniture pubbliche in Cina e l’astensione da pratiche protezionistiche mascherate dalla necessità di sostenere l’innovazione nazionale; 3) una maggiore protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Al di là quindi della retorica che avvolge le relazioni tra Europa e Cina sin dall’istituzione, nell’aprile 1998, di una long-term and stable constructive partnership, i punti di frizione sono molti. Oltre a chiedere aperture commerciali e il rispetto delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), l’Unione (ma non i singoli stati) insiste (con scarsi risultati) sul rispetto dei diritti umani, mentre la Cina preme sull’Ue affinché ponga fine all’embargo sulla vendita di armi, le conceda lo status di economia di mercato (con i privilegi che ciò comporterebbe per le procedure antidumping in sede Omc), e cessino i contatti dei leader europei con il Dalai Lama e con i dirigenti di Taiwan. Tutte queste questioni sul tappeto con il gigante asiatico mettono alla prova la capacità dell’Unione di formulare una politica estera coerente ed efficace.
Tra la nascente diplomazia europea e una politica estera cinese sempre più assertiva stanno crescendo i punti di frizione. Ciò spiega il fallimento della strategia dell’Ue di unconditional engagement nei confronti di Pechino. François Godement, che già in un influente scritto aveva sostenuto la necessità di passare a un reciprocal engagement, che rendesse più esplicite le contropartite negoziali, sostiene che è tempo di formulare una Global China Policy, che si concentri su cinque aree: politiche commerciali e di investimento; industria e tecnologia; cambiamenti climatici; proliferazione nucleare e Iran; diritti umani. Una tale politica non solo richiede, ovviamente, uno stretto coordinamento fra le politiche nazionali degli stati membri, ma anche la cooperazione con gli alleati dell’Europa “per aumentare il suo leverage limitato” nei confronti della Cina. La Cina ha infatti dimostrato di potere “costruire coalizioni negative per frenare il processo di elaborazione di nuove norme internazionali”, e per reagire a questo comportamento l’Europa da sola è troppo debole politicamente. Può tuttavia, approfittando dello stallo nelle relazioni Cina-USA e Cina-India, inserirsi nel gioco diplomatico con una propria dignified foreign policy (per usare le parole del ministro degli esteri finlandese). Secondo Godement, gli europei devono anche conoscere meglio gli attori cinesi (esercito, aziende di stato, partito) che oggi assumono delle importanti decisioni di politica estera, e aumentare i contatti bilaterali a tutti i livelli, per evitare che i rapporti con la Cina siano “lost in translation”. Il vertice di Bruxelles dimostra che anche per l’Unione il tempo della retorica è finito.
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