Dall’inizio dell’autunno del 1965 alla tarda primavera del 1966 l’arcipelago indonesiano divenne lo scenario di uno dei più sanguinosi e meno conosciuti massacri del XX secolo. La notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del 1965 un gruppo di ufficiali vicini alla sinistra, autoproclamatosi “Movimento 30 Settembre”, rapì e uccise alcuni tra i più importanti generali dell’alto comando dell’esercito. Un’altra fazione delle forze armate, guidata dal Maggior Generale Suharto e più vicina alle posizioni dell’Occidente, reagì a tali accadimenti con immediatezza, sconfiggendo i “ribelli” nell’arco di poche ore.
Quest’evento, tutto sommato poco sanguinoso (causò non più di una dozzina di vittime), diede il la a un terribile bagno di sangue. In poco meno di una settimana il gruppo vicino a Suharto, troppo celermente e senza prova alcuna, incolpò il Partito comunista indonesiano (Partai Komunis Indonesia) di aver architettato il presunto colpo di stato e di aver tradito i fondamenti della nazione. In seguito a tali accuse, e a un’intensa propaganda volta a demonizzare e deumanizzare tutti gli appartenenti alle organizzazioni della sinistra, già dalla seconda metà di ottobre iniziarono a verificarsi omicidi su larga scala, incarcerazioni di massa, vessazioni, stupri e saccheggi ai danni dei comunisti. Le violenze iniziarono ad Aceh, la zona più musulmana del paese, per poi propagarsi in tutto l’arcipelago, ma le maggiori vittime si ebbero a Giava, Bali e nella zona settentrionale di Sumatra. L’esercito, coadiuvato dalle forze religiose anticomuniste, oltre che da tutta una serie di gruppi paramilitari, e sostenuto dalle grandi potenze occidentali, attuò in meno di un anno la distruzione dell’intera sinistra indonesiana, pose le basi per la propria duratura permanenza al potere e aprì le porte del paese al libero mercato.
Ancora oggi non v’è certezza sul numero effettivo di vittime, ma diversi studiosi concordano su una cifra intorno al mezzo milione. Allo stesso modo, il numero di coloro che furono incarcerati senza regolare processo è valutabile in più di un milione. Inoltre, nei successivi trent’anni di dittatura militare, sia gli ex detenuti sia i loro congiunti subirono tutta una serie di restrizioni: dall’impossibilità di accedere a determinati lavori nella pubblica amministrazione al divieto di frequentare l’università, dal controllo repressivo da parte delle forze dell’ordine alla negazione del diritto di voto. Le vittime non erano identificabili per l’appartenenza a un particolare gruppo etnico, linguistico o religioso, non costituivano una minoranza all’interno della nazione indonesiana, né potevano essere distinte dai carnefici per i motivi sopracitati. La presunta colpa di tutti questi uomini era l’aver aderito, nella maggior parte dei casi in modo abbastanza approssimativo, al pensiero comunista.
Il Movimento 30 Settembre e le uccisioni di massa a esso collegate hanno costituito, e in parte costituiscono tuttora, una questione storiografica irrisolta. Per oltre trent’anni, il regime militare del Generale Suharto ha presentato gli eventi come il tradimento del Partito comunista ai danni del popolo indonesiano. Musei, testi scolastici, film di regime e commemorazioni pubbliche hanno avuto il compito di diffondere l’unica versione ufficiale dei fatti riprogrammando la memoria del popolo all’anticomunismo. Nei libri di scuola non vi è menzione della sorte di milioni di vittime, mentre nella monumentale Storia Nazionale Indonesiana, composta da studiosi di regime, vi è solo un accenno a un numero imprecisato di caduti a causa della furia popolare successiva agli eventi.
Nonostante i massacri siano stati, e rimangano, perlopiù sconosciuti alla maggior parte del pubblico occidentale, fin dal 1966 si iniziò a discutere, tra giornalisti e accademici, sia degli eventi del 30 settembre che degli eccidi successivi. Sin da subito si scontrarono due tendenze distinte, espressioni in molti casi delle contrapposizioni politiche della Guerra fredda. Da un lato coloro che attribuivano, in linea con la versione di regime, le motivazioni delle violenze all’ira incontenibile delle popolazioni e ai preesistenti conflitti etnici e sociali. Dall’altro, un nutrito gruppo di studiosi che non solo offriva un’interpretazione alternativa degli eventi di Jakarta, ma accusava direttamente l’esercito indonesiano di aver messo in atto un programma genocidario.
Fu proprio intorno al termine ‘genocidio’ che si intraprese un’ardua diatriba ancora lontana dal districarsi completamente. La parola fu coniata da Raphael Lemkin negli anni quaranta per riferirsi all’Olocausto. A causa delle complesse questioni politiche del dopo guerra, ‘genocidio’ non includeva, nelle sue linee ufficiali, i gruppi politici tra le potenziali vittime. Inoltre, nel caso indonesiano, a causa della mancanza di fonti e alla ferma volontà della classe dirigente di evitare indagini approfondite, non era possibile definire chiaramente gli autori di tali atti. A ciò si aggiungeva la questione che le violenze non erano avvenute in un periodo di guerra aperta con un nemico esterno né durante un aspro conflitto civile. Per di più alla dittatura suhartiana non poteva essere addebitata una delle grandi caratteristiche degli altri regimi famosi per una simile inaudita violenza, in quanto l’Indonesia del “nuovo ordine” non si basava su nessuna delle forme utopiche di “pulizia” interna che avevano caratterizzato la Germania nazista o le varie repubbliche socialiste.
Fino alla caduta di Suharto nel maggio del 1998, quelle voci che si erano contrapposte alla versione di regime, sia dentro che fuori l’Indonesia, si erano infrante su di una costruzione propagandistica difficile da scalfire. Il governo militare non solo aveva spazzato via centinaia di migliaia di cittadini indonesiani, ma aveva anche eretto a ideologia di regime l’anticomunismo, trasformando le terribili violenze collegate alla sua ascesa al potere in una vera e propria cosmogonia. Il coinvolgimento di un grande numero di civili nei massacri e l’aver trasformato gli stessi in una sorta di guerra santa, definendo i comunisti come uomini senza dio e nemici della patria, hanno permesso ai militari di plagiare la memoria collettiva, detenere il monopolio quasi totale sulla scrittura della storia e sfuggire alle proprie responsabilità.
Ciononostante, in seguito al periodo di riforme democratiche avviatosi a partire dal 1998, nuove narrazioni si sono imposte all’opinione pubblica dell’arcipelago. I racconti degli ex detenuti politici e, in alcuni casi, dei perpetratori dei massacri hanno posto nuova luce sugli eventi del 1965. Memorie, opere letterarie, documentari e nuove ricerche accademiche sono fiorite negli ultimi vent’anni. Anche a livello governativo ci sono stati diversi tentativi di apertura, spesso però bloccati sul nascere. Il secondo presidente dell’era post-Suharto, Abdurrhaman Wahid, è stato tra i primi a chiedere pubblicamente perdono per i massacri alle famiglie delle vittime. Purtroppo, però, quando ha avviato i primi tentativi di indagine ufficiale, è stato prontamente boicottato da buona parte della classe politica e militare. Nello stesso periodo si sono moltiplicate le associazioni di vittime e le ONG nate con il compito preminente di documentare le violenze del 1965 e sollevare il caso anche a livello internazionale.
Proprio grazie a queste iniziative si è arrivati nel novembre del 2015 alla celebrazione di un processo da parte del Tribunale internazionale del popolo per il 1965 (International People’s Tribunal 1965) istituito a L’Aia. I giudici, suscitando non poco stupore tra le vittime e gli attivisti, hanno concluso il processo condannando l’Indonesia e attestando numerosi reati ascrivibili a crimini contro l’umanità. Gli esiti del processo non hanno però valore esecutivo, ma solo morale e, più che condanne vere e proprie, costituiscono delle “raccomandazioni”. Mentre azioni simili, dentro e fuori l’arcipelago, hanno contribuito a diffondere la conoscenza degli eventi, sul suolo indonesiano si assiste a un ritorno crescente di forme di negazionismo e chiusura culturale. Diversi gruppi islamici e alcune formazioni paramilitari nazionaliste continuano a irrompere ogniqualvolta vengono organizzati simposi sull’argomento o commemorazioni delle vittime. Così come innumerevoli membri del governo o dell’élite militare si esprimono pubblicamente contro ogni tentativo di svolgere una ricostruzione storica rigorosa. Persino il Presidente Jokowi, attualmente in corsa per un secondo mandato e in attesa dei risultati definitivi delle urne previsti per fine maggio, che durante la sua prima campagna elettorale aveva promesso nuove indagini, sembra ormai essersi adagiato su una posizione di accettazione della vecchia versione suhartiana. Non a caso, in occasione delle celebrazioni delle forze armate lo scorso 5 ottobre, ha dichiarato che il compito precipuo dei militari rimane la lotta al comunismo. Quantunque possano avviarsi delle aperture in seno alla classe dirigente indonesiana, esse sembrano volersi porre più nella direzione di una semplice riconciliazione che di una vera analisi storica degli avvenimenti.
In un contesto del genere risulta difficile riflettere circa le conseguenze di questi tragici eventi sulla vita politica, sociale e culturale dell’Indonesia. Una pesante eredità grava sui milioni di abitanti dell’arcipelago. Non solo le innumerevoli vittime dirette del regime, ma anche le centinaia di migliaia di parenti, soltanto per una colpa di consanguineità, e in questo simili alle vittime delle violenze su base etnica, hanno subito per anni vessazioni di ogni genere conservando un trauma ancora lungi dall’essere superato.
Alla tragedia del sangue se ne sommano tante altre di diversa natura. Innanzitutto, la perdita culturale subita dal paese per l’eliminazione di un’intera generazione di intellettuali e, con essi, lo smarrimento di una tradizione di pensiero critico proprio della sinistra. In secondo luogo, in seguito alla netta condanna delle correnti animistiche e dell’ateismo, un generale riallineamento in ambito religioso ha portato, come conseguenza, l’indirizzarsi delle tensioni sociali sempre più nel variegato mondo dell’estremismo islamico. Un’altra gravosa eredità è la continuazione, nonostante i vent’anni dalla caduta del regime, di una tradizione di pretorianismo, con una parte dei militari spesso corrotti e disinteressati al rispetto dei più fondamentali diritti. Il loro ruolo rimane ancora oggi preponderante, basti pensare alla candidatura dell’ex genero di Suharto, Prabowo Subianto, alle elezioni presidenziali dello scorso 17 aprile. A quest’ultimo, ex ufficiale, vengono ancora contestate le responsabilità durante le violenze di Timor Est del 1999 e la repressione dei movimenti studenteschi dell’anno precedente. Ultimo, ma non meno importante, è lo stesso rapporto con la storia del popolo indonesiano a essere ancora oggi corrotto. Nell’attuare la mistificazione degli avvenimenti degli anni sessanta, gli storici di regime hanno stravolto tanti altri momenti della storia del paese. La conoscenza del passato delle giovani generazioni dell’arcipelago risulta nel migliore dei casi insufficiente, e in molti altri completamente inquinata. Fortunatamente, una piccola minoranza, stimolata dal fiorire di romanzi, film e studi sulla questione, ha iniziato ad affrontare l’argomento con un approccio più lucido e oggettivo, fiduciosa di poter analizzare nuovamente quegli eventi con serenità e riannettere all’interno del paese tradizioni culturali e individui in grado di poter accrescere le potenzialità indonesiane.
Il lascito più traumatico delle violenze del 1965 rimane però il silenzio che le avvolge. La classe dirigente indonesiana, così come tanti altri gruppi al potere, porta avanti una negazione sistematica dei fatti o un loro stravolgimento. Così come per il genocidio degli Armeni di inizio novecento, l’ostracismo rimane imperante e gli accenni agli autori dei massacri sono caratterizzati da un’imbarazzante vaghezza. Qualcosa tuttavia si è mosso negli ultimi vent’anni, soprattutto in ambito accademico. Ciò ha permesso di chiarire maggiormente il ruolo centrale dei militari nel pianificare non solo i massacri, ma anche l’annichilimento fisico, politico e culturale di quel gruppo nazionale definito dallo stesso esercito “kaum komunis” (“gruppo comunista”). Secondo il pensiero di Robert Cribb (ma anche di John Roosa, Geoffrey Robinson, Jess Melvin e tanti altri), le violenze in Indonesia possono dunque essere definite un genocidio in quanto le vittime rappresentavano un gruppo – quello comunista – all’interno dello stato, chiaramente identificabile e con proprie tradizioni. Inoltre, esso era stato accomunato dai carnefici anche dal punto di vista religioso attraverso l’accusa di ateismo. Se a ciò aggiungiamo l’estensione della repressione ai familiari, gli elementi che portano alla definizione del genocidio appaiono sempre più probanti. Per concludere, nonostante non ci siano le prove di un unico ordine impartito dall’alto, grazie alle recenti fonti analizzate è possibile individuare in Suharto e nei suoi collaboratori la volontà di mettere in atto un vasto programma pianificato di uccisioni, incarcerazioni, repressione e negazione culturale.
La definizione legalistica degli avvenimenti e anche i processi di riconciliazione possono essere ottimi strumenti per affrontare il caso indonesiano, ma non bastano per superare tali tragedie se non accompagnati da una ricostruzione storica rigorosa e dall’individuazione dei responsabili, così che il cupo silenzio durato cinquant’anni possa essere definitivamente spezzato.
Per saperne di più:
Cribb, R. (2001), “Genocide in Indonesia, 1965‐1966”, Journal of Genocide Research 3 (2), pp. 219-239. Disponibile su: http://dx.doi.org/10.1080/713677655
Roosa, J. (2016), “The State of Knowledge about an Open Secret: Indonesia’s Mass Disappearances of 1965–66”, The Journal of Asian Studies 75 (2), pp. 281–297 Disponibile su: https://doi.org/10.1017/S0021911816000474
Robinson, G. (2017) “Down to the Very Roots: The Indonesian Army’s Role in the Mass Killings of 1965–66”, Journal of Genocide Research 19 (4), pp. 465-486. Disponibile su: https://doi.org/10.1080/14623528.2017.1393935
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