Traduzione dall’inglese di Simone Dossi
Annunciata in due fasi dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang, la strategia “Una cintura e una via” è il nuovo orientamento della politica estera di Pechino su cui oggi sembrano concentrarsi quasi tutte le discussioni tra esperti d’Asia. Presentata al mondo prima nel settembre del 2013 ad Astana come “Cintura economica della via della seta”, e poi mesi dopo in Indonesia come “Via della seta marittima del XXI secolo”, le finalità di questa nuova strategia non sono sempre ben definite. Per capire meglio l’indirizzo che la Cina sta prendendo bisogna guardare a ciò che Pechino sta facendo in Asia centrale: è l’Asia centrale, infatti, la pista di lancio di questa nuova iniziativa.
Xinjiang: l’Asia centrale cinese
Descritta dal geografo inglese Halford Mackinder come “il fulcro dell’Eurasia”, l’Asia centrale è al centro del pensiero strategico da secoli. Per la Cina essa ha un’importanza anche maggiore per via della sua vicinanza allo Xinjiang – a tutti gli effetti una parte di Asia centrale dentro ai confini della Cina. È una regione ricca di risorse naturali ma popolata da una minoranza uigura profondamente scontenta del governo di Pechino. Una rabbia che si è intensificata fino al punto di scatenare ripetuti episodi di violenza, con apice nel luglio del 2009, quando gruppi di uiguri ad Urumqi (la capitale regionale) aggredirono cinesi han. In seguito alle violenze, che sono durate un paio di giorni, il governo di Pechino ha dato attuazione a una strategia volta a migliorare la situazione regionale con un enorme investimento economico. Pechino scommette sul fatto che la promozione del benessere economico sia sufficiente a mitigare il malcontento sociale e a soddisfare le rivendicazioni della popolazione.
Il risultato è una corsa allo Xinjiang: altre province si sono date l’obiettivo di investire in aree dello Xinjiang, inviando funzionari del Partito a lavorare a fianco delle autorità locali per trasmettere le ricette applicate con successo nel resto del paese. Una percentuale del Pil di ogni provincia cinese viene dirottata verso lo Xinjiang e le grandi imprese statali che investono nella regione sono tenute a lasciarvi una quota dei loro profitti maggiore della norma. Questo sul fronte interno; le imprese straniere, a loro volta, sono incentivate ad aprire stabilimenti nella regione attraverso sostanziosi benefici e agevolazioni.
Il problema, però, è che – come il resto dell’Asia centrale – lo Xinjiang è lontano dalle rotte oceaniche e dalle vie commerciali tradizionali. Per rendere profittevoli gli investimenti nella regione la Cina deve perciò puntare sull’apertura dei mercati limitrofi tra i paesi dell’Asia centrale e costruire una nuova rete infrastrutturale che li colleghi tra loro. Il risultato è un’enorme spinta allo sviluppo regionale, con le grandi banche statali cinesi (come la ExIm Bank o la China Development Bank) pronte a offrire ai governi dell’Asia centrale prestiti a tasso agevolato, a condizione che i progetti su cui vengono investiti vengano realizzati da aziende cinesi – generalmente con manodopera cinese e utilizzando prodotti cinesi.
Per i paesi dell’Asia centrale si tratta di proposte attraenti: la Cina rappresenta una fonte d’investimento più solida della Russia, più generosa di altri paesi asiatici come il Giappone e la Corea del Sud, e più affidabile dei paesi europei e degli Stati Uniti. È una dinamica in atto da più di un decennio: la Cina sta diventando la potenza che persegue con più efficacia i propri obiettivi in Asia centrale, mentre – poco per volta – le strade e le infrastrutture della regione si riorientano da Mosca verso Pechino, via Urumqi.
Il sogno cinese di Xi Jinping
È questa la situazione che la nuova amministrazione di Xi Jinping ha ereditato quando è andata al potere nel novembre del 2012: una relazione con l’Asia centrale costruita su finanziamenti e imprese cinesi, di cui entrambe le parti sono soddisfatte. I paesi della regione sono infatti favorevoli a questa nuova fonte di investimenti, con disponibilità economiche apparentemente illimitate e scevra dalle aspettative di dominazione politica che accompagnano invece gli investimenti russi, nonché dalle condizioni politiche poste da Europa e Stati Uniti. L’esperienza centrasiatica ha insegnato a Pechino quali siano le leve più efficaci per affermare gli interessi nazionali cinesi sulla scena internazionale. A Pechino prevale ancora un approccio incentrato sul principio di non interferenza negli affari altrui, che consente di operare all’estero senza crearsi nemici.
Vi è anche una spinta a riprodurre globalmente il modello sperimentato in Asia centrale: dalla “Cintura economica della via della seta” annunciata ad Astana alla “Via della seta marittima del XXI secolo”, al “Corridoio Bangladesh-Cina-India-Myanmar”, al “Corridoio economico Cina-Pakistan” e a una serie di proposte per altre vie che si sviluppano a partire dalla Cina. Nel loro insieme, questi progetti costituiscono l’iniziativa “Una cintura e una via”, che mira a ridare alla Cina centralità nella rete internazionale di vie commerciali, aprendo nuovi mercati e riorientando le vie commerciali della regione per rafforzare il ruolo di pivot del paese.
Sin dall’inizio del suo mandato, Xi Jinping ha sottolineato l’importanza della diplomazia economica. Nel gennaio del 2013, in un discorso all’Ufficio politico del Comitato centrale, Xi ha sostenuto che la Cina non avrebbe “mai perseguito l’obiettivo del proprio sviluppo al costo di sacrificare gli interessi di altri paesi”. Questa dichiarazione evidenziava l’importanza degli interessi reciproci come nucleo centrale della strategia cinese verso l’esterno. Lo stesso aspetto veniva evidenziato in settembre ad Astana all’interno del famoso discorso sulla “Cintura economica della via della seta” pronunciato da Xi all’Università Nazarbayev, nel quale il presidente cinese auspicava che “la Cina e l’Asia centrale [unissero] i propri sforzi per costruire una cintura economica della via della seta che [rafforzasse] la cooperazione”. Lo stesso punto veniva nuovamente ribadito nell’ottobre di quello stesso anno, durante la Conferenza sul lavoro diplomatico nella regione, laddove Xi delineava una lista di priorità in politica estera verso l’“obiettivo di realizzare la grande rinascita della nazione cinese; sviluppare complessivamente le relazioni con i paesi della regione; consolidare l’amicizia con i vicini; approfondire forme di cooperazione reciprocamente vantaggiosa; preservare e impiegare al meglio l’importante periodo di opportunità strategica per lo sviluppo della Cina; preservare la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi dello sviluppo; impegnarsi per migliorare la relazione politica della Cina con i paesi della regione; consolidare i legami economici, approfondire la cooperazione di sicurezza e intensificare gli scambi culturali tra la Cina e i paesi della regione”.
Le leve economiche del progetto
L’attrattiva di un simile modello è facile da comprendere, da un punto di vista cinese. La combinazione di vie commerciali, investimenti nelle infrastrutture, prestiti agevolati e mercati aperti fa leva su una serie di strumenti che i policy-maker cinesi conoscono bene. Si tratta di strumenti che corrispondono alla nozione cinese di benefici armoniosi e di vantaggi condivisi, e che mirano a ricollocare la Cina al centro della struttura economica globale. Sono strumenti che i policy-maker cinesi sanno come utilizzare: prestiti agevolati e finanziamenti vengono forniti attraverso banche quali la China Development Bank o la ExIm Bank, mentre l’attuazione dei progetti è affidata a imprese di Stato cinesi che hanno esperienza nella realizzazione di grandi progetti infrastrutturali in contesti difficili.
Nel quadro dell’iniziativa “Una cintura e una via”, ciò si è concretizzato in una forte proiezione finanziaria cinese. Sia la China Development Bank che la ExIm Bank hanno articolato una propria strategia per “Una cintura e una via”, ma – accanto a questi veicoli tradizionali – la Cina ha iniziato a promuovere la creazione di nuove partnership bilaterali. Non solo: oltre all’approccio bilaterale Pechino ha promosso un’intera rete di nuove istituzioni internazionali, costitute appositamente per finanziare la nuova iniziativa. Queste istituzioni assumono tre diverse forme. Alcune sono create su proposta e sotto la guida cinese; la più significativa è la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), con un capitale di 100 miliardi di dollari. Altre sono create con il sostegno di Pechino, come la Banca di sviluppo dei Brics (pure dotata di un capitale di 100 miliardi di dollari) e la Banca di sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, ancora in attesa del varo; infine, crescono a ritmo sostenuto gli accordi bilaterali in materia commerciale e di investimento che la Cina sta concludendo con i suoi vicini – ad esempio l’accordo per l’investimento di 46 miliardi di dollari per il Corridoio economico Cina-Pakistan, annunciato da Xi Jinping durante la sua visita di quest’anno a Islamabad. In aggiunta, la Cina ha annunciato la creazione di un Fondo per la via della seta del valore di 40 miliardi di dollari, con un board of advisors che include esperti della Urumqi Central Bank.
È attraverso questa rete di istituzioni finanziarie che viene fornita la liquidità necessaria a finanziare l’iniziativa “Una cintura e una via”. Destinatari dei finanziamenti sono i paesi vicini: per esempio, il progetto di Corridoio economico Cina-Pakistan, in particolare alcuni progetti “early harvest” nel settore dell’energia in Pakistan, saranno i primi beneficiari di finanziamenti dal Fondo della via della seta. Ma i finanziamenti finiscono per la maggior parte a imprese di Stato cinesi impegnate a dar sostanza alla retorica dei leader. Per avere un’idea di quali imprese il governo cinese intenda sostenere con l’iniziativa “Una cintura e una via” basta del resto guardare al progetto di China securities index e Shanghai stock exchange per la creazione di un “indice congiunto che rilevi le performance delle azioni che ricadono entro l’iniziativa ‘Una cintura e una via’”. Composta da 52 imprese attive nei settori di “costruzione di infrastrutture, trasporti, produzione di energia e comunicazioni”, la lista offre una chiara indicazione di quali siano – nelle aspettative di Pechino – i beneficiari dell’iniziativa.
La strategia potrà avere successo?
Ma quante concrete possibilità di successo ha questa ambiziosa strategia? Secondo il Ministero del commercio della Repubblica popolare cinese, nella prima metà del 2015 le imprese cinesi hanno investito circa 7,05 miliardi di dollari in 48 paesi collocati entro il perimetro dell’iniziativa. Ma ciò non elimina del tutto i dubbi sulla concreta realizzabilità della strategia. In Asia centrale, in particolare, ha colto alcuni successi, ma ha anche incontrato ostacoli destinati a manifestarsi altrove.
La logica sottesa alla strategia può apparire benevola. L’apertura di corridoi commerciali, con grandi investimenti e con il coinvolgimento di imprese in grado di realizzare i progetti, garantirà vantaggi in termini di nuove reti infrastrutturali ad alcuni dei paesi più poveri della regione. Ma vi sono dubbi sui vantaggi che questi paesi potranno trarre al di là del mero investimento in infrastrutture. Per i paesi dell’Asia centrale, per esempio, non è chiaro quanto la visione di nuovi corridoi commerciali che li attraversano possa realmente aiutarli nello sviluppo delle proprie economie nazionali. Questi paesi puntano a sviluppare industrie nazionali – ma se si parla con uomini d’affari e commercianti della regione, tutti esprimono la preoccupazione di essere espulsi dal mercato dall’arrivo delle più competitive imprese cinesi.
Un ulteriore dubbio è se i paesi della regione siano nelle condizioni di beneficiare realmente dell’iniziativa. L’apertura di corridoi commerciali è finalizzata a creare nuove vie di trasporto per i prodotti, ma nulla garantisce che ne derivino automaticamente vantaggi anche per i cittadini dei paesi di transito. In Pakistan si è cercato di ovviare a questo rischio attraverso l’istituzione di zone economiche lungo il Corridoio economico Cina-Pakistan, ma sarà necessario del tempo prima che queste decollino.
Infine, tutto ciò non risolve i problemi di sicurezza che avranno con ogni probabilità un impatto su molte delle vie di comunicazione create sotto l’egida di “Una cintura e una via”. In aggiunta alle tensioni nelle relazioni tra la Cina e buona parte dei suoi vicini marittimi (che in teoria dovrebbero cooperare nel progetto della Via marittima della seta), vi sono i problemi di sicurezza di Asia centrale e meridionale: instabilità in Belucistan e in Myanmar, gruppi terroristici attivi in Afghanistan e capaci di espandersi in altri paesi dell’Asia centrale. Alcuni di essi hanno contatti con gruppi dissidenti uiguri, il che rinvia a quelle stesse minacce che la Cina cerca di attenuare attraverso la propria strategia di investimenti in Asia centrale. Queste sono parti del mondo in cui è difficile per chiunque investire, non solo a causa della mancanza di infrastrutture ma anche per i diffusi problemi di corruzione e per i gravi deficit di governance.
Nonostante ciò, la visione di “Una cintura e una via” è destinata a diventare la fondamentale direttrice della politica estera di Xi Jinping. Delineata in termini sempre più chiari, e sostenuta dai necessari finanziamenti, essa sta ora muovendo dall’elaborazione retorica all’azione. È presto per dire se sarà coronata da successo, ma la rotta è tracciata ed è già stata sperimentata in Asia centrale. Xi Jinping e la sua cerchia hanno certo letto Mackinder: l’Occidente farebbe bene a concentrarsi su come rispondere al meglio all’agenda di politica estera che la Cina sta articolando.
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