Esiste un’immagine, nella storia recentissima del nostro attivismo in Italia, che ben rappresenta cosa significa, per Amnesty, agire per il rafforzamento dell’Italia come attore positivo nel panorama mondiale delle strategie di peacebuilding: la nostra bandiera che sventola insieme ai cartelli dei portuali genovesi per impedire la partenza di una nave carica di armi per l’Arabia Saudita. Quelle armi sono dirette in Yemen, teatro di uno tra i più violenti conflitti armati attualmente in corso nel mondo.
Per Amnesty il peacebuilding è inteso nel suo senso più ampio, ovvero come quell’insieme di strategie e relazioni volte a generare una pace sostenibile, e dunque anche al miglioramento del rispetto dei diritti umani nel mondo. Rispetto ad altri paesi occidentali dove operiamo, l’Italia non rappresenta certo un terreno semplice dove lavorare, sia per i rapporti con i governi sia per il sostanziale disinteresse con cui la maggior parte della popolazione sembra guardare a ciò che succede al di fuori dei propri confini. Il 1998, anno in cui Roma ospitò quello che è forse il punto più alto dello sforzo internazionale per garantire la pace e la sicurezza tra le nazioni, la firma del trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale, sembra perduto nel trapassato remoto della nostra coscienza politica nazionale. Al contrario di altri paesi europei – senza necessariamente scomodare mosche bianche come la Svezia, che eccelle in questo campo a dispetto del suo peso geopolitico ed economico relativamente modesto – è possibile affermare che qui le sirene del populismo in politica, già consolidatesi prima di Tangentopoli e poi diventate assordanti a partire dal berlusconismo, hanno contribuito ad accelerare il progressivo scollamento del paese da quello che accade intorno a sé. Questo danneggia la nostra posizione più che in altri stati, perché l’Italia ha sempre dovuto fare della diplomazia la sua arma più raffinata, non potendo vantare né eccezionali dimensioni economiche né superiori capacità militari. Forse proprio per questo l’Italia ha sempre prediletto approcci multilaterali nella sfera internazionale e ciò l’ha resa nella storia del dopoguerra una potenza più votata a perseguire la via della pace e dell’armonia tra le nazioni che a fomentare conflitti.
La crisi della Prima Repubblica ha travolto la fiducia degli italiani nelle istituzioni, permettendo il cementarsi di quell’approccio antipolitico già presente in nuce nel Partito Socialista Italiano di Craxi. Le forze politiche emergenti, nella loro retorica costruita per seguire gli umori del proprio bacino elettorale, hanno da allora poco alla volta svuotato i propri programmi di visioni che tenessero conto della storia politica, nazionale e internazionale del nostro paese, dal momento che tutto quanto avesse anche un vago sentore di continuità con il passato rischiava di venire bollato come corrotto e quindi bocciato alle urne. La caduta del nostro sistema politico dentro questa spirale, prima definita populista e oggi divenuta sovranista, ha poi risucchiato progressivamente tutte le forze politiche, con poche ed effimere eccezioni, trasformando anche la politica internazionale in una merce di scambio elettorale. Impossibilitata, per fortuna, dallo sfruttare il proprio comunque risibile passato coloniale – al contrario di Francia e Inghilterra – e molto legata alla dottrina democratica statunitense – ma capace, in rare ma importanti occasioni come la crisi di Sigonella, di prendere le distanze dall’ingombrante alleato americano – l’Italia ha sempre avuto una propria visione del mondo e la sua linea di azione è stata tracciata nel solco dell’approccio europeo ai diritti umani. Si è mantenuta, fino a tutti gli anni dieci del secolo corrente, una tendenziale preferenza per le soluzioni pacifiche, e l’opinione pubblica è riuscita a esercitare con relativo successo un ruolo di controllo. Poi qualcosa è cambiato. A livello governativo è cominciata una progressiva ma inarrestabile scissione tra gli interessi politici e gli interessi economico-commerciali internazionali, con un’attenzione quasi esclusiva per i secondi. La nuova visione è stata portata avanti in ogni contesto, a volte creando episodi al limite del grottesco, come in occasione della difesa, da parte del Presidente del Consiglio Conte nel suo primo Governo, dell’ingresso formale dell’Italia nel programma cinese noto come “Nuova via della seta”: pare davvero incredibile che non si comprenda l’intenzione di Pechino di esportare, oltre alla proprie merci, anche una visione politica e della società – un modello nel quale i diritti umani trovano davvero poco spazio. Pur mantenendo, nella forma, una preferenza per soluzioni pacifiche e concertate a livello internazionale (anche se, nel caso del controllo dei flussi migratori, soprattutto il primo Governo Conte ha rappresentato una grave soluzione di continuità), a livello commerciale il nostro paese si è spogliato di qualsivoglia scrupolo etico, chiudendo gli occhi di fronte a qualsiasi violazione dei diritti umani, occasionale, sistematica o sistemica che fosse. Chi con noi sta chiedendo, da oltre quattro anni, verità per Giulio Regeni, ne sa qualcosa.
La scissione tra economia e politica ha generato un altro vantaggio: ora tutti i governi italiani possono usare a proprio piacimento temi di politica internazionale durante la campagna elettorale, modificando poi radicalmente la propria impostazione una volta eletti, senza che l’economia subisca contraccolpi di sorta. A volte, come nel caso delle armi in Yemen, la società civile riesce comunque a scoprire l’inganno e a mobilitarsi. Altre volte, invece, questo non avviene, come nel programma sui droni statunitensi e nei rapporti con l’Egitto. È interessante notare che dove non è facilmente identificabile la conseguenza di alcune politiche sulle popolazioni, risulta complicato anche raccogliere delle firme. Il confronto tra due appelli lanciati da Amnesty, uno dei quali già chiuso, è abbastanza significativo. Nel caso delle vittime civili in Yemen, stiamo riuscendo a raggiungere il traguardo delle 46.000 firme: gli effetti sulle persone sono molto chiari ed evidenti, e forse il teatro di guerra è troppo lontano perché molte persone associno quel conflitto alla crisi dei migranti. Nel caso dell’appello, già chiuso, per fermare il supporto italiano al programma americano droni, non siamo riusciti a raggiungere neanche 7.500 firme. Il coinvolgimento del nostro paese è molto maggiore ed è indubbio che tale programma rappresenti una minaccia per la pace nel mondo. Tuttavia, non siamo riusciti a generare interesse sull’argomento.
Volendo parafrasare William T. Wollmann, si può dire che ogni atto omissivo in politica internazionale è riconducibile a una spiegazione razionale. E nel caso della progressiva scomparsa dell’Italia tra i principali attori mondiali nel panorama del peacebuilding si può ipotizzare che ci sia stato, dal lato politico, la volontà di liberare a livello internazionale il nostro paese da alleanze politiche troppo solide o escludenti, aprendosi a collaborazioni con le potenze emergenti, incuranti del fatto che fossero portatrici di valori antitetici ai nostri principi costituzionali, mentre a livello di politica interna il nostro ruolo internazionale diventa merce di scambio elettorale. Dal punto di vista economico, invece, la linea sembra quella di sostenere il nostro paese e perseguire il saldo attivo della bilancia dei pagamenti con ogni mezzo, dimenticando, oltre che la nostra Costituzione, anche mezzo secolo di politiche volte al consolidamento dell’età dei diritti. Abbiamo avuto modo di notare, in più di un’occasione, come i nostri governi abbiano celato dietro la necessità di uno sforzo multilaterale la mancanza di volontà politica di prendere posizione in situazioni di violazioni dei diritti umani, portando avanti al contempo rapporti bilaterali di tipo commerciale – si pensi ai rapporti con l’Egitto di Al Sisi.
L’indebolimento dell’Italia come attore chiave del peacebuilding internazionale è un rischio per tutti: lo è per il sistema internazionale, perché perde un attore strategico per frenare l’avanzata delle dottrine autocratiche di Jinping, Bolsonaro, Trump e di autocrati minori, ma non meno pericolosi, come Orban e Duterte. Lo è per le nostre istituzioni, diplomazia e Forze Armate comprese, perché le modalità con cui questo indebolimento viene realizzato accentuano la percezione dell’Italia come partner non affidabile e in balia degli umori delle folle e dei suoi leader. Lo è, infine, per la società civile, che perde la possibilità di poter contribuire efficacemente al progresso internazionale e nazionale di una cultura dei diritti umani.
Quello che servirebbe, oggi, è che tutti questi attori, spesso abituati a muoversi ai lati opposti della barricata, si rendessero conto degli effimeri dividendi positivi di questa strategia e trovassero modi e tempi per collaborare al fine di smantellarla.
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