Lo scorso luglio il Pew Research Center pubblicava i risultati dell’edizione 2017 di una inchiesta campionaria sulla percezione della Cina in 38 paesi del mondo, a partire dall’influenza che i rispondenti ritengono essa abbia sull’economia globale rispetto agli Stati Uniti.[1] Sebbene gli autori del rapporto abbiano scelto di porre l’accento sul fatto che resta maggioritario il numero di paesi in cui l’economia statunitense è considerata preminente, sorprende come in tutti i principali paesi europei prevalga l’opinione opposta: in Germania, Francia e Regno Unito una netta maggioranza degli interpellati ritiene che la principale potenza in campo economico sia già oggi la Cina. Unica eccezione l’Italia, in cui il campione si è diviso equamente nel giudizio sul peso relativo dei due paesi (Figura 1).
La Cina per l’Italia: un partner in crescendo
Che i cittadini europei, italiani inclusi, siano consci della crescente importanza della Cina è noto: basta osservare i dati presentati nelle precedenti edizioni del medesimo rapporto per riscontrare come, sin dal 2008, sia l’economia cinese – e non più quella statunitense – a essere considerata leader a livello globale. Certo questo giudizio non corrisponde alla realtà delle statistiche internazionali, che collocano l’economia cinese al secondo posto con un Pil pari a circa i 2/3 di quello statunitense, in dollari correnti. D’altro canto, però, la potenza commerciale cinese – che da due decenni espone l’industria europea a una concorrenza sempre più intensa ed è ora accompagnata da una inedita proiezione finanziaria verso l’Europa – giustifica una certa distorsione percettiva. Nel caso italiano, la Cina pesa per quasi il 5% dell’interscambio commerciale complessivo (rispetto a circa il 6,5% degli Stati Uniti),[2] mentre l’Italia figura al terzo posto in Europa come paese di destinazione degli investimenti cinesi, alle spalle di Regno Unito e Germania,[3] e al primo per numero di cittadini cinesi residenti.[4]
Figura 1. Q.23 “Quale dei seguenti paesi Lei ritiene sia la prima potenza economica al mondo, oggi?”
Le nuove generazioni e lo stesso sistema scolastico stanno reagendo: il Rapporto 2017 dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca stima siano 17.500 gli studenti che frequentano corsi di lingua cinese e svolgono altre attività di conoscenza e incontro con la cultura cinese in 279 scuole secondarie di secondo grado. Il rapporto sottolinea come, rispetto al rilevamento condotto 11 anni fa, l’immagine della Cina sia cambiata tra i ragazzi: la percezione è quella di un paese più potente (così si esprime il 70% dei rispondenti, +11% rispetto al 2006) e dinamico (66%, +8%), ma anche più chiuso (57%, +14%). Il 70% dei giovani è convinto che l’influenza cinese sull’Italia andrà ad aumentare nei prossimi 5-6 anni, e già oggi il suo peso a livello economico è ritenuto molto rilevante da oltre la metà (il 55% esprime un giudizio tra 8 e 10 su una scala 1-10). Complessivamente, si tratta di una fotografia piuttosto lucida dei trend che caratterizzano la Cina oggi.
Gradualmente, anche lo stato e i media italiani hanno rafforzato la propria attenzione verso il paese: l’Ambasciata di Pechino è ora la seconda rappresentanza diplomatica italiana nel mondo dopo Washington per numero di diplomatici (11) e la prima per personale complessivo,[5] mentre l’apertura di un Consolato generale a Chongqing (2014) e di un’Ambasciata a Ulaanbaatar (2016) hanno incrementato la pervasività della presenza italiana in regioni strategiche della Repubblica popolare cinese (Rpc), sgravando al contempo l’Ambasciata d’Italia in Cina dei doveri di rappresentanza in Mongolia. La frequenza delle visite ministeriali da parte italiana – in passato un costante elemento di debolezza nelle relazioni bilaterali – registra da alcuni anni un promettente incremento.
Anche i media italiani hanno intensificato la copertura sul paese:[6] un’analisi preliminare dei riferimenti alla Cina sul Sole 24 Ore, ad esempio, mostra come questi siano pressoché triplicati nell’arco di un decennio (Figura 2).
Figura 2. Numero di citazioni della parola “Cina” in articoli de Il Sole 24 Ore
Una tendenza analoga si riscontra comparando la copertura accordata dal primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera, al nuovo presidente degli Stati Uniti e al suo omologo cinese nell’anno della rispettiva elezione. La Figura 3 riporta i dati riferiti agli anni in cui negli Stati Uniti e in Cina assurgono ai vertici dello stato nuovi leader. Sebbene l’attenzione dedicata al nuovo inquilino della Casa Bianca resti chiaramente prevalente, colpisce il significativo incremento dei riferimenti al leader cinese: nel 2017 Xi Jinping viene richiamato sulle pagine del Corriere della Sera con una frequenza dieci volte maggiore rispetto a quanto accadeva nel 1992 per Jiang Zemin, chiamato a guidare la Cina dopo la repressione del movimento di Piazza Tian’anmen.[7] Ma non basta: l’attenzione tributata a Xi in questo anno di conferma ai vertici del Partito comunista cinese è anche sei volte maggiore di quella che ricevette nel 2012, quando accedette per la prima volta alla carica dopo una transizione pacifica ma non precisamente ordinata. Questo dato, sostanzialmente omogeneo rispetto a quanto si riscontra analizzando gli archivi degli altri principali quotidiani nazionali, sottolinea come all’emergere della Cina quale attore di rilievo globale si accompagni, anche in Italia, una più assidua presenza mediatica della figura che incarna il potere nello stato cinese.
Istituzioni e potere del Partito comunista cinese
Considerando che si tratta del paese che più di ogni altro va modificando gli equilibri commerciali, industriali, finanziari e geopolitici del mondo in cui viviamo, colpisce quanto poco si sappia della cultura politica, dell’assetto istituzionale, dei processi di selezione della classe dirigente e delle principali personalità che reggono la Cina di oggi e plasmano quella del futuro. La differenza rispetto all’enfasi con cui l’Italia segue il lungo ciclo elettorale degli Stati Uniti, ad esempio, è straordinaria: della Cina non soltanto non si conosce la topografia politica, ma sovente si ignora che anch’essa sperimenta, ogni cinque anni, un percorso di selezione della dirigenza suprema estremamente articolato e denso di conseguenze, culminante nel congresso nazionale del Partito comunista cinese (Pcc). Non si tratta evidentemente di elezioni politiche in senso proprio, bensì della procedura attraverso cui si rinnova la leadership di un partito che conta oltre 89 milioni di membri e determina i destini della Cina dal 1949. Il 19° congresso del Pcc si è tenuto a Pechino tra il 18 e il 24 ottobre 2017.
Figura 3. Numero di citazioni del nome dei nuovi leader di Usa e Pcc sul Corriere della Sera
Per cogliere la portata di questo passaggio può essere utile calarsi in una simulazione, per quanto surreale, e chiedersi – se in Italia vi fosse un partito con poteri paragonabili a quelli di cui dispone il Partito comunista in Cina – quali effetti pratici avrebbe un suo congresso sul futuro del paese. In uno scenario del genere, per effetto del congresso gli italiani vedrebbero avvicendarsi (o essere confermati): il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, i Presidenti delle due Camere, ministri e sottosegretari, il capo di Stato Maggiore della difesa e gli altri vertici delle forze armate, i giudici della Corte costituzionale, il governatore della Banca d’Italia, i presidenti delle regioni, i sindaci dei principali capoluoghi, i vertici delle forze dell’ordine, i direttori del Corriere della Sera, di Repubblica e del Sole 24 Ore, il consiglio di amministrazione della Rai, i rettori delle principali università, gli amministratori delegati di Banca Intesa, Unicredit, Cassa Depositi e Prestiti, Exor, Enel, Generali, Eni, Trenitalia, Leonardo, Ferrero, Luxottica e delle altre principali imprese italiane, i leader sindacali e i vertici delle authority, delle principali articolazioni della pubblica amministrazione e dei maggiori centri di ricerca. E’ di questa portata, mutatis mutandis, il controllo che il Pcc esercita, in via esclusiva, sulla Cina oggi.
Proprio in ragione di questo potere di nomina dei vertici politico-istituzionali a livello centrale e locale – oltre che per la subalternità delle forze armate al partito prima che allo stato – si usa parlare di “partito-stato” cinese. Tecnicamente, la Cina non è retta da un regime a partito unico: la Costituzione del 1982, nel suo Preambolo, riconosce l’esistenza di “partiti democratici” (otto residui delle formazioni politiche preesistenti alla fondazione della Repubblica popolare), ma li pone sotto la guida del Pcc. D’altronde, in coerenza con la propria matrice leninista, il Pcc non trae la propria legittimazione dalla manifestazione del consenso popolare attraverso elezioni competitive: esso si presenta piuttosto come portatore di una responsabilità storica e perenne in quanto avanguardia alla guida del popolo cinese nel cammino verso un orizzonte di modernità, prosperità e grandezza. [8]
Per raggiungere i propri obiettivi, sin dai tempi della Rivoluzione che l’ha portato al potere nel 1949, il partito si avvale di “quadri”, l’incarnazione dell’”avanguardia” che operativamente educa e guida le “masse”. Il concetto di “quadro” (ganbu, 干部) ha un perimetro molto ampio nel contesto cinese: all’indomani della fondazione della Rpc, il termine è stato utilizzato per designare individui in posizioni di responsabilità manageriale o incaricati di specifici compiti di indirizzo politico. E’ questa particolare compagine di protagonisti della vita pubblica cinese che ha consentito alla Cina maoista di gettare le fondamenta del nuovo stato tra il 1950 e il 1956, così come anche di mobilitare decine di milioni di persone al servizio di campagne politiche drammaticamente onerose durante la fase totalitaria dell’alto maoismo. E sono sempre i quadri, quarant’anni dopo le riforme avviate da Deng, a conferire oggi a questo paese di dimensioni sub-continentali la reattività organizzata che lo rende tanto stupefacente agli occhi di molti osservatori. Che questo ampio bacino di operativi – 42 milioni, secondo gli ultimi dati affidabili disponibili[9] – sia cruciale per preservare l’efficacia del dominio del Pcc sullo stato e, per suo mezzo, sull’intera società cinese, è testimoniato dal radicarsi nel tempo di un principio centrale per la governance della Cina: “Il partito gestisce i quadri” (dang guan ganbu, 党管干部).[10] Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, dalle frammentarie informazioni che il partito lascia trapelare si evince che soltanto una minoranza dei quadri è membro del Pcc:[11] è tra questi 15-18 milioni di persone che viene selezionata l’élite del partito-stato cinese. Così come i membri del Pcc che non hanno lo status di quadro non dispongono in sostanza di alcuna autorità, infatti, specularmente i quadri che non dispongono della membership del partito non vengono pressoché mai considerati per la cooptazione ai vertici del potere.
Non tutti gli individui che posseggono contemporaneamente lo status di quadro e di membro del partito hanno poi uguali probabilità di diventare “quadri dirigenti” (lingdao ganbu, 领导干部), ossia di qualificarsi tra i circa 500.000 quadri a capo almeno di una divisione o di una contea (il livello chuji, 处级).[12] Coloro che raggiungono questa posizione – o posizioni superiori – provengono per la più parte da un particolare sotto-insieme di quadri, ossia quelli con incarichi amministrativi che operano nell’ambito di organi o agenzie governative o di strutture del partito (dangzheng jiguan, 党政机关), costituendo la spina dorsale dell’apparato burocratico cinese. Dall’inizio delle riforme nel 1979, con l’affermarsi del discorso sulla modernizzazione e professionalizzazione della burocrazia cinese, gli appartenenti a questa particolare tipologia di quadri, il cui numero è compreso tra i 7 e i 10 milioni,[13] sono noti come “funzionari pubblici” (gongwuyuan 公务员). Come per gli altri quadri, anche per i funzionari pubblici l’appartenenza al partito non è obbligatoria, ma diventa decisiva per lo sviluppo della carriera.
Figura 4. Quadri, membri del Pcc e il bacino di selezione dell’élite politico-amministrativa in Cina
In sintesi, come illustrato nella Figura 4, il bacino entro cui si seleziona la quasi totalità della classe dirigente cinese è di fatto costituito da quadri con profilo di funzionari pubblici cui è stata concessa la membership del Pcc.[14] Appena il 5% dei quadri dirigenti non è membro del Pcc ed è di fatto impossibile per qualunque non membro proseguire il cursus honorum e scalare i vertici degli uffici centrali o delle prefetture (livello juji, 局级), per assurgere infine alle circa 4.200 posizioni ministeriali o di leadership provinciale (buji, 部级) proprie dei “quadri apicali” (gaoji ganbu, 高级干部). Tra questi ultimi, i massimi detentori del potere sono i leader di “livello nazionale” (guojiaji, 国家级), ossia i membri del Comitato permanente dell’Ufficio politico, o Politburo, che ricoprono le più alte cariche del partito-stato. In altri termini, Xi Jinping – appena confermato Segretario generale del Pcc e Presidente della Commissione militare centrale, e in predicato di essere confermato Presidente della Rpc nella primavera 2018 – tecnicamente non è una figura politica che presiede su un colossale apparato amministrativo, bensì il funzionario pubblico che ha raggiunto la vetta del sistema politico-burocratico cinese.
E’ grazie alla presa su questo pervasivo reticolato di membri di partito, quadri e funzionari pubblici, in media sempre più giovani e preparati,[15] che il Pcc può aspirare a “garantire la [propria] leadership su tutti gli sforzi che si compiono nel paese” per il progresso della Cina. Ed è appunto questo il primo dei 14 principi enunciati nel rapporto politico presentato da Xi Jinping al 19° congresso nazionale del partito lo scorso 18 ottobre 2017 come fondamentali per lo sviluppo del “socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”. Nella cultura politica del Pcc tale rapporto non riporta la visione del Segretario generale uscente: si tratta, al contrario, del documento politicamente più autorevole elaborato ogni lustro in Cina, in cui si fissa il consenso raggiunto nell’intero Pcc riguardo all’opera del partito nel quinquennio precedente e si indicano le linee guida politiche per i cinque anni successivi.[16] Dunque, se è vero – come ben illustrato da Alice Miller – che nel corso del suo primo mandato Xi ha seguito puntualmente l’indirizzo tracciato nel rapporto presentato dal predecessore Hu Jintao al 18° congresso (2012), allora una prima effettiva misura della concentrazione del potere nelle sue mani è da ricercarsi nell’impronta che Xi è riuscito a imprimere sul rapporto, più che nell’estetica della personalizzazione del potere intorno alla sua figura. In questo senso, l’enfasi sul primato del partito su tutte le espressioni della società cinese non soltanto conferma un trend ormai ventennale, ma raggiunge in questo documento un picco che potrà rendere la fisionomia della governance in Cina qualitativamente diversa rispetto al passato. Un esempio è costituito dall’inedito suggerimento di esplorare modi per fondere organi del partito e dello stato con le medesime funzioni a livello di provincia, prefettura e contea, o quantomeno riunirli in un unico ufficio.[17]
Figura 5. La struttura gerarchica piramidale del Pcc all’indomani del 19° congresso nazionale
L’indirizzo delle riforme politico-istituzionali è ormai compiutamente agli antipodi rispetto al percorso impostato trent’anni fa dal 13° congresso (1987), presieduto da Zhao Ziyang appena prima della crisi di piazza Tian’anmen. Alla prospettiva di una “separazione di partito e stato” (dang-zheng fenkai, 党政分开) – funzionale ad assicurare la professionalizzazione della gran maggioranza dei “funzionari pubblici di carriera” (yewu gongwuyuan, 业务公务员) e a distaccare il Pcc dall’attrito determinato dalla implementazione amministrativa delle direttive politiche[18] – si è sostituita una strategia di “costruzione del partito” (dangde jianshe 党的建设) che, viceversa, postula un sempre più integrato esercizio del potere politico e di quello amministrativo.[19]
Un risvolto di questo indirizzo è che i regolamenti del partito prevalgono sulle previsioni di legge nella gestione dei funzionari pubblici, come richiamato nel dispositivo della Legge sul pubblico impiego emanata nel 2005. Ma la superiorità delle norme di partito rispetto all’ordinamento dello stato cinese[20] – giustificata nel discorso ufficiale dagli standard più elevati che si impongono ai membri del partito rispetto alla collettività – definisce soltanto il quadro politico-giuridico in cui si esprime il primato del Pcc. Esso è integrato tanto da un sofisticato apparato ideologico che traduce l’egemonia culturale del partito nei canoni di pensiero entro cui la società cinese può legittimamente articolare i propri discorsi, quanto da quattro istituzioni -piuttosto fluide[21] – che definiscono la topografia sostanziale del potere in Cina:
La definizione della nuova leadership del Pcc nel 19° congresso
Il congresso nazionale del Pcc è il momento culminante della vita politica in Cina non soltanto al giorno d’oggi, ma – ragionando in retrospettiva – da ancor prima della fondazione stessa della Repubblica popolare. Fu, ad esempio, nel 7° congresso, svoltosi nel 1945, quando ancora le sorti della guerra civile tra Kuomintang e comunisti erano incerte, che si affermò il primato politico di Mao Zedong nel Pcc. Con l’iscrizione del “pensiero di Mao Zedong” (Mao Zedong sixiang, 毛泽东思想) nello statuto del Pcc al termine di quell’assise, il marxismo-leninismo venne ufficialmente sinizzato, e l’artefice di questo eccezionale sincretismo ideologico divenne l’unico leader cinese a godere dell’autorevolezza derivante dall’avere il proprio contributo dottrinale eretto a ideologia-guida del partito mentre era ancora nel pieno della propria carriera politica – almeno fino al 2017. Il 19° congresso, infatti, con una scelta che appunto non ha precedenti negli ultimi 70 anni, ha riconosciuto a Xi Jinping e al suo “pensiero” una statura analoga, facendone la guida ideologica per l’azione del Pcc quando il neo-confermato Segretario generale, lungi dall’avviarsi all’uscita della vita politica attiva, è allo zenit del potere.
I due principali compiti dei congressi nazionali del Pcc – che, dalla fine dell’era maoista, si tengono regolarmente ogni cinque anni – sono dunque l’aggiornamento dell’apparato ideologico-concettuale su cui si fonda il partito-stato e la ridefinizione della classe dirigente apicale. Come illustrato nei contributi di Marina Miranda, Konstantinos Tsimonis e Carlotta Clivio in questo numero di OrizzonteCina, le innovazioni apportate dall’ultimo congresso sono significative su entrambi i versanti. Con riferimento al primo, il parallelo Mao-Xi ha catturato l’attenzione di molti, ma – al netto del confronto abbastanza inutile tra il potere acquisito dai due leader all’interno del partito in due fasi storiche profondamente diverse – vi è una fondamentale differenza tra il vate dell’utopico paradiso comunista cinese e il pragmatico interprete del nuovo sogno di grandezza nazionale cinese. Mao puntava a trasformare radicalmente la Cina secondo una specifica declinazione di quella che restava tuttavia una ideologia con pretesa di universalità, irriducibilmente contrapposta al modello capitalistico e liberal-democratico (quantomeno nei principali paesi) proprio dell’Occidente. Soprattutto, il Grande timoniere fu sempre ambivalente rispetto all’inevitabile tendenza all’istituzionalizzazione della rivoluzione proletaria, di cui egli aveva sostanzialmente assunto la guida già nel 1935, per condurla alla fondazione della Repubblica popolare nel 1949. La Rivoluzione culturale (1966-1976), su cui torna Giuseppe Gabusi nella sua recensione, mostra come Mao fosse disposto a minare le fondamenta stesse del partito per servire un’agenda finalizzata al consolidamento del proprio potere personale, al rinvigorimento del fervore rivoluzionario e al contrasto all’imborghesimento dei quadri.
Xi Jinping si pone su tutt’altra traiettoria: ideologicamente, egli è se mai erede di Deng Xiaoping e il suo “pensiero del socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era” si presenta dichiaratamente come aggiornamento della cosiddetta “Teoria di Deng”, codificata come ideologia-guida nello statuto del Pcc poco dopo la morte di quest’ultimo nel 1997. Accelerando un’operazione pluri-decennale di conversione del “patrimonio genetico ideologico” del Partito comunista cinese – un sottile processo di eugenetica identitaria che in altri contesti è stato chiamato trasmogrificazione[36] – Xi guida una Cina che ha attinto e continuerà ad attingere selettivamente allo strumentario istituzionale e tecnologico dell’Occidente al servizio di un nuovo sincretismo: un’agenda di modernizzazione autoritaria originalmente “cinese”. In questa prospettiva, il partito non costituisce più un possibile fattore di contenimento della visione del leader – come a tratti fu per Mao – bensì lo strumento per eccellenza attraverso cui questa opzione di rinascimento della nazione cinese può essere realizzata. Il rapporto politico 2017 evidenzia questo aspetto con lucidità: tra i 14 punti che stanno alla base del Xi Jinping-pensiero ben 10 sono dedicati al tema del miglioramento della capacità di governance del Pcc, nelle sue varie declinazioni.[37] E mentre il neo-confermato Segretario generale annuncia la nuova contraddizione con cui la Cina è chiamata a confrontarsi – la dialettica tra una società del benessere (ma anche, in filigrana, bisognosa di apertura) e gli squilibri nel sistema economico -, l’ambiziosa missione che viene posta non è soltanto di trovare la quadratura socio-istituzionale di questo cerchio dentro la Cina, ma farlo enucleando una “saggezza cinese” (Zhongguo zhihui, 中国智慧) da proporre come fonte di ispirazione ad altre società per affrontare le proprie esigenze di sviluppo governato. Una macchina di partito efficace, riforme finalizzate al potenziamento della competitività dell’economia cinese (più o meno rispondenti ai principi del libero mercato) e un apparato teorico che integri le energie della società cinese e del partito-stato secondo un modello internazionalmente riconosciuto come legittimo, credibile e attraente: sono questi gli assi portanti del socialismo cinese per la nuova era illustrato da Xi. Un autoritarismo tecnocratico impegnato in un progetto di ricostruzione di un Cina ricca, forte e con orizzonti globali, che – se non necessariamente contrapposta alla via occidentale – certamente può esserne di contrappunto.
Sul versante della ridefinizione della leadership, il neo-confermato Segretario generale ha clamorosamente rotto la prassi che prevedeva l’insediamento di un erede designato nel Comitato permanente del Politburo durante il proprio secondo mandato – come accaduto per lo stesso Xi tra il 2007 e il 2012. Comunque la si guardi, si tratta di una battuta d’arresto per l’istituzionalizzazione dei processi di selezione della dirigenza suprema del partito-stato avviata negli anni ’80 da Deng Xiaoping.[38] Nel 2022, al termine del secondo mandato quinquennale di Xi, nessuno degli attuali sette membri del Comitato permanente rispetterà il requisito anagrafico per restare in carica, avendo tutti raggiunto o superato i 68 anni. Da questa situazione senza precedenti discendono tre scenari potenziali:
Questi sviluppi non sono materia di speculazione soltanto all’esterno della Cina: l’estrema opacità dei processi decisionali all’interno di Zhongnanhai fa sì che l’intero partito si interroghi – intensamente, seppur con circospezione – sul senso politico delle nomine e delle dichiarazioni riportate dall’agenzia di stampa Xinhua, oltre che sugli editoriali del Quotidiano del popolo. Scelte caratterizzate da un esercizio fortemente discrezionale del potere da parte del vertice non sono soltanto problematiche per un fatto di estetica, ma anche di igiene istituzionale, intesa nei termini dei canoni di prevedibilità che orientano la condotta dei quadri e, più in generale, dei membri del partito.
Secondo i dati ufficiali (link in cinese) condivisi dal Dipartimento dell’organizzazione, questi ultimi sono stati pressoché tutti interpellati nelle procedure di selezione-elezione dei delegati al 19° congresso, con un tasso ufficiale di coinvolgimento – tra raccomandazioni, consultazioni, voti e altre forme di partecipazione agevolate dalle nuove tecnologie – pari al 99,2% degli aventi diritto (+1,2% rispetto al congresso nazionale precedente). I vertici del partito hanno molto insistito sulla mobilitazione della base, essendo il congresso nazionale un cruciale riflesso della “linea di massa”, che resta tuttora il metodo di lavoro costitutivo del Pcc, sebbene la sistematizzazione del concetto risalga a una direttiva di Mao del 1943.[40] La “linea di massa” impegna il nucleo centrale del partito a mantenere il collegamento con la popolazione e consente al Pcc – non orientato a una legittimazione elettorale di tipo democratico pluralistico, in quanto partito d’avanguardia di matrice leninista – di affermare nondimeno una rappresentatività sostanziale ampia e trasversale.[41] Come rimarcato dai media cinesi, quest’ultima si evince dalla varietà di gruppi sociali, settori e professioni da cui provengono i 2.280 delegati che hanno preso parte al 19° congresso nazionale del partito: se la grande maggioranza dei delegati è costituita da quadri dirigenti, non meno di 1/3 dei delegati è risultato espressione delle organizzazioni di base del Pcc (jiceng dang zuzhi, 基层党组织), compresi contadini, operai, lavoratori migranti, tecnici, professionisti e imprenditori.
Figura 6. Profilo dei delegati al 19° congresso nazionale del Pcc
Accanto a questo dato, i commentatori cinesi hanno sottolineato la dimensione meritocratica del processo di selezione di coloro che hanno partecipato al congresso, che integra una consultazione democratica (elezione) con il primato dei vertici del Partito in termini di supervisione sia della procedura, sia dell’integrità dei delegati (selezione). Nel complesso occorre poco più di un anno per concludere le operazioni che nel 2017 hanno riunito al congresso nazionale 2.280 delegati[42] provenienti da 40 “unità elettorali” (xuanju danwei, 选举单位), di cui 34 territoriali e 6 funzionali, ossia rappresentanze dei gruppi di partito all’interno della burocrazia del partito medesimo, all’interno dell’amministrazione dello stato, e dentro le istituzioni finanziarie, le imprese sotto il controllo dello stato centrale, le forze armate e la polizia armata del popolo (Figura 7).
Figura 7. Delegati eletti al 19° congresso nazionale del Pcc, per unità elettorale*
Sebbene la gerarchia sia decisiva, assicurando che i vertici del partito risultino sempre tra i delegati (Xi Jinping, ad esempio, ha scelto di essere eletto delegato dalla provincia del Guizhou, all’epoca retta dal suo protégé Chen Min’er), la competizione per un posto da delegato su fa più intensa man mano che cala la seniority dei candidati. A ogni congresso le autorità centrali determinano la quota di delegati espressi da ciascuna unità elettorale e sollecitano queste ultime a definire gli standard politici cui gli aspiranti delegati devono conformarsi.[43] Sulla base di questi standard, parte la competizione, articolata in sei fasi:
Quest’ultimo meccanismo elettorale, codificato nello statuto del Pcc nel 1987, è il più noto tra gli strumenti detti di “democrazia intra-partitica” (dangnei minzhu, 党内民主) e ritorna nell’ancor più delicato momento di selezione-elezione del Comitato centrale. Benché lo statuto del partito (art. 23) preveda che il Politburo, il suo Comitato permanente e il Segretario generale (che di quest’ultimo organo deve obbligatoriamente far parte) siano “eletti dal Comitato centrale in sessione plenaria”, infatti, il processo è anche in questo caso un combinato di selezione ed elezione a margine di discrezionalità limitato.
La premessa, in questo caso, è che nell’estate precedente il congresso nazionale, mentre va concludendosi l’iter di selezione dei delegati, i principali detentori del potere ai vertici del partito – un imperscrutabile sotto-insieme dei membri del Politburo uscente cui sovente si aggiungono alcuni quadri apicali in pensione, a seconda della temperie politica del momento – si riuniscono per un paio di settimane nella località balneare di Beidaihe per delineare informalmente la composizione dei organi apicali che dovranno entrare in carica al successivo congresso. E’ questa la fase cruciale di selezione in cui le fondamentali tensioni politiche tra filiere di potere e ambizioni personali vengono composte. Nel 2017 questa consolidata tradizione – già invalsa in epoca maoista – è stata non soltanto mantenuta, ma sostanzialmente accentuata. In una ulteriore conferma del cambio di approccio rispetto alla pur acerba istituzionalizzazione del processo di selezione dei leader di livello nazionale, Xi Jinping ha infatti deciso di sospendere la prassi della “raccomandazione democratica” (minzhu tuijian, 民主推荐) sperimentata nel 2007 e nel 2012 dal predecessore Hu Jintao. Nei mesi precedenti il 17° e 18° congresso nazionale del Pcc tutti i membri effettivi e supplenti del Comitato centrale uscente, insieme con alcuni altri quadri particolarmente autorevoli, erano stati coinvolti in un sondaggio consultivo per concorrere alla definizione della lista da presentare ai delegati al successivo congresso nazionale per l’elezione del nuovo Comitato centrale e, a seguire, per l’approvazione in blocco da parte di quest’ultimo dei membri candidati a comporre i nuovi Politburo e Comitato permanente, oltre al leader da eleggersi alla carica di Segretario generale. L’agenzia di stampa Xinhua ha chiarito il senso dell’abbandono di questa esperienza, parlandone come di sondaggi che avevano aperto la strada a fenomeni di inaffidabilità nell’espressione delle preferenze, troppo orientate dalle fazioni di appartenenza. Al loro posto, Xi e gli altri principali leader hanno fatto ricorso ad alcune centinaia di consultazioni informali bilaterali con quadri dirigenti ed esponenti delle forze armate. Le liste dei candidati per i posti di membro effettivo e membro supplente del 19° Comitato centrale – ma soprattutto la fisionomia attesa del nuovo Politburo e del suo Comitato permanete – sono emerse da questi confronti, per essere poi formalmente elaborate dal Comitato permanete uscente il 25 settembre 2017 e approvate quattro giorni dopo dal Politburo uscente, che ha riferito tali raccomandazioni alla prima sessione plenaria del nuovo Comitato centrale (Figura 8).[46]
Figura 8. Sintesi dei temi usualmente affrontati nelle 7 sessioni plenarie dei Comitati centrali del Pcc
Si arriva così al momento elettorale vero e proprio nel processo di definizione dei nuovi vertici centrali del Pcc: pur avendo un’autonomia di scelta molto limitata, infatti, i 2.354 delegati con diritto di voto[47] che hanno preso parte ai lavori del congresso nazionale tra il 18 e il 24 ottobre 2017 hanno anch’essi potuto votare secondo il meccanismo “più candidati che seggi”, con un margine di discrezionalità sostanziale medio pari ad almeno l’8%. Il dato è in linea con i due congressi precedenti. Poiché la membership effettiva del Comitato centrale è obbligatoria per accedere al Politburo e al Comitato centrale, i delegati al congresso nazionale – cui non spetta designare i componenti di tali organi (prerogativa riservata ai membri effettivi del nuovo Comitato centrale) – possono tentare di incidere sulle nomine apicali facendo mancare ai candidati i voti per risultare eletti tra i membri effettivi del Comitato centrale.[48]
Questo passaggio è dunque estremamente delicato ed è per questa ragione che la procedura elettorale si sviluppa in realtà in quattro fasi: nella prima l’Ufficio di presidenza del congresso (zhuxituan, 主席团), la cui composizione è approvata dai delegati nel primo giorno di lavori, formula due liste separate di candidati per i ruoli di membri effettivi e membri supplenti del Comitato centrale, e una lista di candidati per la membership della Commissione centrale per l’ispezione della disciplina. Nella seconda fase tali liste vengono trasmesse ai delegati suddivisi per le rispettive unità elettorali di provenienza, i quali danno luogo alle “elezioni preliminari” (yuxuan, 预选): è qui che i delegati votano secondo il meccanismo dei “più candidati che seggi”, potendo sostanzialmente raccomandare l’esclusione di una trentina di nominativi o poco più dalle liste dei candidati alla membership del Comitato centrale e della Commissione centrale per l’ispezione della disciplina. L’esito di queste votazioni è oggetto di una nuova riunione (riservata) dell’Ufficio di presidenza, che, in questo decisivo terzo passaggio, stila a propria discrezione la lista finale di candidati, pur se alla luce delle consultazioni appena svoltesi. La lista definitiva torna quindi ai delegati nelle varie unità elettorali, che sono invitati a un momento di riflessione prima della quarta e ultima fase, ossia le elezioni formali dei nuovi membri secondo il meccanismo dell’elezione a candidato singolo, che si tengono nell’ultimo giorno di lavori del congresso.[49]
L’iter di rinnovamento della dirigenza suprema del partito si conclude, il giorno dopo l’elezione, con la prima sessione plenaria del nuovo Comitato centrale,[50] che – riprendendo le raccomandazioni del precedente Politburo – conferma la composizione del nuovo Politburo e del suo Comitato permanente, insieme con il nuovo Segretario generale. Nel caso di Xi Jinping, naturalmente, non si tratta di un Segretario generale nuovo alla carica, ma – come si è cercato di ricostruire in questo contributo e si vedrà nei successivi – il profilo politico consolidato nel recente congresso rende il prossimo lustro della sua leadership, se non formalmente, sostanzialmente capace di sprigionare una ben maggiore carica innovativa.
[1] Pew Research Center, Globally, More Name U.S. than China as World’s Leading Economic Power (Washington: Pew Research Center, 13 luglio 2017), disponibile all’Url http://www.pewglobal.org/2017/07/13/more-name-u-s-than-china-as-worlds-leading-economic-power.
[2] Analisi dell’autore su dati dell’Osservatorio economico sul commercio internazionale del Ministero dello Sviluppo economico, ultima consultazione 4 ottobre 2017, disponibile all’Url http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/commercio-internazionale/osservatorio-commercio-internazionale.
[3] Thilo Hanemann e Mikko Huotari, Record Flows and Growing Imbalances. Chinese Investment in Europe in 2016 (Berlino: Merics, gennaio 2017), disponibile all’Url https://www.merics.org/en/merics-analysis/papers-on-china/cofdi/cofdi2017.
[4] I dati Istat riferiscono di poco meno di 282.000 cittadini cinesi residenti in Italia al 31 dicembre 2016: si tratta del 4° gruppo nazionale per consistenza, pari a oltre il 5,6% del totale degli stranieri residenti in Italia. In altri paesi europei le comunità cinesi sono numericamente maggiori, ma i loro appartenenti – cinesi per estrazione familiare – sono cittadini dei paesi in cui risiedono. La Repubblica popolare cinese non consente la doppia cittadinanza.
[5] I dati si riferiscono al 2016 e dal computo sono escluse Rappresentanze permanenti presso Ue e Onu; Annuario statistico del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale 2017 (Roma: Maeci, 2017), disponibile all’Url http://www.esteri.it/mae/resource/pubblicazioni/2017/07/annuario_statistico_2017_web3.pdf.
[6] A ottobre 2017 si contano 10 corrispondenti italiani in Cina: un corrispondente per ciascuno dei principali quattro quotidiani generalisti italiani (Corriere della Sera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa), uno per le due agenzie di stampa nazionali (Ansa e Agi), due corrispondenti Rai e uno di Radio Popolare (il corrispondente di Radio Radicale a Pechino ricopre al momento lo stesso incarico per uno dei quotidiani citati).
[7] Nel caso degli Stati Uniti i dati riportano il numero di citazioni del nome di colui che sarà eletto come nuovo Presidente nel periodo compreso tra il 1° gennaio dell’anno in cui si tengono le elezioni e il giorno successivo al voto, per legge fissato il primo martedì dopo il 1° novembre (“Election Day”). Per quanto riguarda la Cina, i dati riportano il numero di citazioni del nome di colui che emergerà come Segretario generale del Partito comunista cinese nel periodo compreso tra il 1° gennaio dell’anno in cui si tiene il congresso nazionale del partito e il giorno – tra ottobre e novembre – in cui si riunisce la prima sessione plenaria del neo-eletto Comitato centrale del partito, il cui unico atto è formalizzare la composizione del nuovo Ufficio politico (Politburo) e del suo Comitato permanente, indicando tra i membri di quest’ultimo il Segretario generale del Pcc (statuto del Partito comunista cinese in vigore al momento della convocazione del 19° congresso del Pcc, art. 22, disponibile all’Url http://english.cpc.people.com.cn/206972/206981/8188065.html).
[8] “Educando un partito dei lavoratori, il marxismo educa l’avanguardia del proletariato, capace di assumere il potere, di guidare tutto il popolo verso il socialismo, e di dirigere e organizzare il nuovo ordine”, Vladimir Ilič Lenin, State and revolution (New York: Martino Publishing, 2011), 23-24. Originariamente votato alla modernizzazione socialista come presupposto del paradiso comunista, il Pcc si propone oggi anzitutto quale interprete autentico di un “sogno nazionale cinese” (Zhongguo meng, 中国梦), che integra l’apparato ideologico marxista con un afflato patriottico sostenuto dal recupero strategico di elementi della tradizione storico-filosofica della Cina pre-moderna (non privo di una coloritura etnocentrica). Interessante in questo senso il riferimento alla necessità di promuovere uno “spirito cinese” (Zhongguo jingshen, 中国精神) e “valori cinesi”(Zhongguo jiazhi, 中国价值) contenuto, per la prima volta, nel rapporto politico presentato dal Segretario generale Xi Jinping in apertura del 19° congresso, disponibile all’Url http://news.xinhuanet.com/politics/19cpcnc/2017-10/27/c_1121867529.htm (link in cinese).
[9] Kjeld Erik Brødsgaard (a cura di), Globalization and Public Sector Reform in China (London/New York: Routledge, 2014), 82.
[10] John Burns e Wang Xiaoqi, “Civil Service Reform in China: Impacts on Civil Servants’ Behaviour”, The China Quarterly (2010) 201: 60.
[11] Nel 2000 questo numero era pari a 15,4 milioni di individui, su un totale di 40,5 milioni di quadri: Kjeld Erik Brødsgaard, “Cadre and Personnel Management in the CPC”, China: An International Journal 10 (2012) 2: 69–83. Dati più recenti sono riportati in Li Cheng, Chinese Politics in the Xi Jinping Era: Reassessing Collective Leadership (Washington: Brookings Institution Press, 2016).
[12] Kjeld Erik Brødsgaard, “Cadre and Personnel Management in the CPC”, China: An International Journal 10 (2012) 2: 69–83.
[13] La maggior parte dei quadri non opera all’interno degli organi amministrativi del Pcc o dello stato cinese, bensì nelle imprese (qiye, 企业) o presso “unità di pubblico servizio” (shiye danwei, 事业单位) – come scuole, università, ospedali… – che non perseguono obiettivi di profitto e non esercitano funzioni amministrative su altre unità. Il dato numerico è tratto da Kjeld Erik Brødsgaard e Gang Chen, “China’s Civil Service Reform: An Update”, EAI Background Brief No. 493, dicembre 2009, disponibile all’Url http://www.eai.nus.edu.sg/publications/files/BB493.pdf.
[14] Diventare membri del partito non è un passaggio scontato: in media, meno del 20% di quanti presentano domanda ogni anno vengono ammessi. Per un’analisi sulla membership del Pcc si veda Bruce Dickson, “Who Wants to Be a Communist? Career Incentives and Mobilized Loyalty in China”, The China Quarterly, (2014) 217: 42–68.
[15] Yu Keping, “Learning, training, and governing: the CCP’s cadre education since the reform”, Journal of Chinese Governance 1 (2016) 1: 41–54. La Cina di oggi presenta la più compiuta realizzazione di un partito-stato tecnocratico: l’appartenenza al partito è condizione necessaria ma insufficiente a garantire la progressione della carriera. Titoli di studio inadeguati, scarsa esperienza amministrativa maturata nelle province meno avanzate della Cina interna, incapacità di mettersi in luce fin da giovani (intorno ai vent’anni) e progredire nel cursus honorum ogni 3-4 anni rendono sovente impossibile a un quadro approdare ai vertici: è il caso, ad esempio, di molti membri supplenti (houbu, 候补) del Comitato centrale del Pcc.
[16] L’elaborazione di questo documento richiede circa un anno, durante il quale vengono condotte ricerche sul campo nel paese e si sollecita il parere di migliaia di membri del Pcc su decine di temi specifici, intorno a cui si esercitano gruppi di lavoro dedicati. Sebbene sia il Segretario generale uscente a coordinare i lavori, tanto il Comitato permanente, quanto il Politburo uscenti e altre figure apicali sottopongono le bozze del rapporto a varie revisioni.
[17] Rapporto politico presentato al 19° congresso del Pcc dal Segretario generale Xi Jinping: “Assicurare un successo decisivo nell’edificazione di una società moderatamente prospera sotto tutti i profili e adoperarsi per il grande trionfo del socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”, Pechino, 18 ottobre 2017, disponibile all’Url http://news.xinhuanet.com/politics/19cpcnc/2017-10/27/c_1121867529.htm (link in cinese).
[18] John Burns, “Chinese Civil Service Reform: The 13th Party Congress Proposals,” The China Quarterly (1989) 120: 740. Si veda anche il rapporto politico presentato al 13° congresso del Pcc dal Segretario generale Zhao Ziyang, “Avanzare lungo la strada del socialismo con caratteristiche cinesi”, Pechino, 25 ottobre 1987.
[19] Mauro Mazza, Decentramento e governo locale nella Repubblica popolare cinese (Milano: Giuffrè, 2009), 165.
[20] L’articolo 126 della Costituzione della Rpc del 1982, oggi in vigore, prevede che “Le corti del popolo esercitano indipendentemente il potere giudiziario, in conformità alle norme di legge, senza interferenze da parte di organi amministrativi, di organizzazioni sociali, di individui”. Il consenso tra i giuristi cinesi è che il Pcc non sia assimilabile a una qualsiasi “organizzazione sociale” e pertanto questa dicitura non vincola il partito all’indipendenza del potere giudiziario. Si veda Andrew Nathan, Larry Diamond e Marc Plattner (a cura di), Will China Democratize? (Baltimora: The Johns Hopkins University Press, 2013), 207. Il punto è in evidenza anche nel rapporto presentato da Xi al 19° congresso: la governance del paese fondata sulla legge e quella del partito basata sulle proprie norme sono distinte e complementari, secondo quanto riportato al punto 6 dell’elenco dei già citati 14 principi a fondamento del “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era” (Xi Jinping xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi sixiang 习近平新时代中国特色社会主义思想).
[21] Sono “istituzioni” le pratiche, relazioni e organizzazioni la cui importanza e regolarità condizionano il comportamento degli individui che ne fanno parte o che vi sono direttamente esposti. La struttura piramidale del partito-stato cinese e il livello di imperscrutabile discrezionalità con cui il potere è gestito ai vertici supremi si riflette sulla fluidità delle istituzioni anche apicali: molte hanno subito e continuano a sperimentare significative metamorfosi quanto a mandato e collocazione gerarchica – fino alla temporanea soppressione – a seconda della temperie politica del momento.
[22] Sul tema si vedano Kenneth Lieberthal, Governing China: From Revolution through Reform (New York: W.W. Norton, 1995) e Alice Miller, “More Already on the Central Committee’s Leading Small Groups”, China Leadership Monitor (2014) 44, disponibile all’Url https://www.hoover.org/sites/default/files/research/docs/clm44am.pdf.
[23] Susan Shirk, The Political Logic of Economic Reform in China (Berkeley: University of California Press, 1993), 59-60.
[24] Tony Saich, “The Fourteenth Party Congress: A Programme for Authoritarian Rule,” The China Quarterly, (1992) 132: 1147. Nel rapporto politico presentato da Xi è eloquente l’enfasi posta sul ruolo del partito: lo stesso termine “partito” (dang, 党) è di gran lunga la parola-chiave più ricorrente, con 344 menzioni (+ 46% sul rapporto politico presentato dal predecessore Hu Jintao nel 2012 e +40% sulla media dei rapporti politici degli ultimi vent’anni).
[25] Per un’autorevole trattazione del modello sovietico si veda Bohdan Harasymiw, “Nomenklatura: The Soviet Communist Party’s Leadership Recruitment System,” Canadian Journal of Political Science 2 (1969) 4: 493-512.
[26] John Burns, “China’s Nomenklatura System,” Problems of Communism 36 (1987) 5: 36-51.
[27] Melanie Manion, “The Cadre Management System, Post-Mao: The Appointment, Promotion, Transfer and Removal of Party and State Leaders,” The China Quarterly (1985) 102: 213 e seguenti.
[28] Sulla valutazione dei quadri apicali si veda, ad esempio, Victor Shih, Christopher Adolph e Mingxing Liu, “Getting Ahead in the Communist Party: Explaining the Advancement of Central Committee Members in China,” American Political Science Review 106 (2012) 1: 166–187.
[29] John Burns, “Strengthening Central CCP Control of Leadership Selection: The 1990 Nomenklatura,” The China Quarterly (1994) 138: 458-491; Li Cheng, “Holding “China Inc.” Together: The CCP and The Rise of China’s Yangqi,” The China Quarterly (2016) 228: 927–949.
[30] Lorenzo Ornaghi (a cura di), Politica : vocabolario (Milano: Jaca Book, 1996), 75-77.
[31] Andrew Nathan, “A Factionalism Model for CCP Politics”, The China Quarterly (1973) 53: 34-66. Gli organi di stampa (link in cinese) riportano frequenti moniti contro la costituzione di fazioni, “bande” e “cricche”. Alice Miller ne distingue tre tipologie: (1) fazioni di matrice ideologica, i cui membri condividono una comune visione su ciò che è bene per la Cina; (2) fazioni finalizzate alla massimizzazione del potere, i cui membri perseguono interessi particolari entro una piramide di rapporti clientelari; fazioni burocratiche, (3) i cui membri modificano la propria condotta a seconda della posizione nel sistema politico-burocratico cinese; Alice Miller, “The Trouble with Factions,” China Leadership Monitor (2015) 46, disponibile all’Url https://www.hoover.org/sites/default/files/research/docs/clm46am-2.pdf.
[32] Per guanxi si intende una relazione informale tra due soggetti intessuta in ottica strumentale come investimento sociale reiterato nel tempo e impostato su una base di reciprocità. Il concetto di ganqing implica l’innestarsi di una dimensione “affettiva” nella relazione, pur se sempre limitata alla dimensione professionale e pertanto non assimilabile alla nozione di amicizia. Come indicato nella nota precedente, nella cultura politico-istituzionale cinese le relazioni patrono-cliente non sono necessariamente definite dalla condivisione di visioni ideali e agende di policy, quanto piuttosto da interessi di sostegno reciproco e mobilità nella carriera. Si veda Andrew Walder, “Organized Dependency and Cultures of Authority in Chinese Industry”, The Journal of Asian Studies 43 (1983) 1: 70. Si veda anche Lucian Pye, The Spirit of Chinese Politics (Cambridge: Harvard University Press, 1992).
[33] John Burns, “‘Downsizing’ the Chinese State: Government Retrenchment in the 1990s,” The China Quarterly (2003) 175: 776 e 777.
[34] Kjeld Erik Brødsgaard, “Institutional Reform and the Bianzhi System in China,” The China Quarterly (2002) 170: 365.
[35] Nel luglio 2016 il Ministero delle Risorse umane e del Welfare cinese ha annunciato un ulteriore avanzamento nel lungo processo di riforma dei bianzhi: mentre i funzionari pubblici – che occupano i bianzhi presso l’amministrazione del partito-stato (Figura 4) – non ne sono toccati, i posti nelle unità di pubblico servizio non saranno più coperti interamente dalla finanza pubblica e ricadranno sul bilancio degli enti locali o dei singoli organi (la cui attività dovrà pertanto essere riconfigurata in modo tale da produrre introiti). Con riferimento ai comparti sanitario e universitario, ad esempio, è attesa – se non l’abolizione tout court dei bianzhi – quantomeno una ulteriormente dilatazione della prassi di contrattualizzare il personale all’esterno dei bianzhi per potenziare la competitività di università e ospedali.
[36] Sul concetto di trasmogrificazione si vedano John Finn, “Transformation or Transmogrification? Ackerman, Hobbes (as in Calvin and Hobbes), and the Puzzle of Changing Constitutional Identity”, Constitutional Political Economy 10 (1999) 4: 361 e Morris Rossabi, “Mongolia: Transmogrification of a Communist Party”, Pacific Affairs 82 (2009) 2: 231–250.
[37] Nel rapporto la parola-chiave usata con maggiore frequenza è proprio “partito” (dang, 党, 344 menzioni), così come “governance” (zhili, 治理) e “rinascimento” (fuxing, 复兴) registrano un incremento di citazioni pari a circa il 250% sul rapporto precedente (2012). Cala invece l’uso di termini come democrazia (minzhu, 民主, -12%), riforme (gaige, 改革, -18%) e mercato (shichang, 市场, -20%). Nel caso degli ultimi due termini il dato è ai minimi storici dal 16° congresso (2002).
[38] Zhengzu Wang e Anastas Vangeli, “The Rules and Norms of Leadership Succession in China: From Deng Xiaoping to Xi Jinping and Beyond”, The China Journal (2016) 76: 24–40.
[39] Secondo la periodizzazione suggerita negli anni ’90 dall’entourage dell’allora Segretario generale del Pcc Jiang Zemin, con l’obiettivo di consolidare la sua autorevolezza in quanto “nucleo” del partito, vi sarebbero state una prima generazione di leader capeggiata da Mao, una seconda guidata da Deng, poi la terza di cui Jiang stesso sarebbe appunto stato il vertice. In questa logica, ad esse sono seguite la quarta, sotto Hu Jintao, e ora la quinta, guidata da Xi. I più giovani membri del Politburo, nati negli anni ’60, sarebbero i potenziali membri della sesta generazione, giacché in possesso dei requisiti anagrafici (57 anni o meno ad oggi, in modo da poter svolgere due mandati quinquennali nel Comitato permanente a partire dal 2022 senza superare i 67 anni all’inizio del secondo mandato nel 2027). Come illustrato nell’analisi dei profili di carriera dei nuovi membri del Politburo in questo numero di OrizzonteCina, soltanto tre esponenti posseggono questi requisiti: Chen Min’er, il più vicino a Xi, Ding Xuexiang e Hu Chunhua, il più giovane e considerato in passato il candidato più accreditato a succedere a Xi, ma ora marginalizzato.
[40] Stuart Schram, The Thought of Mao Tse-Tung (Cambridge/New York: Cambridge University Press, 1989): 45-46.
[41] Sul tema della rappresentatività del Pcc si vedano, tra gli altri, Marina Miranda, “Il Partito comunista cinese da «partito rivoluzionario» a «partito di governo»”, Mondo Cinese (2002) 113: 15-28 e Patricia Thornton, “The Cultural Revolution as a Crisis of Representation,” The China Quarterly (2016) 227: 697–717.
[42] Dalle fila dei 2.300 originariamente previsti, sono stati rimossi un totale di 27 delegati, molti dei quali coinvolti nell’inchiesta che ha portato alla clamorosa espulsione dal partito del Segretario del Pcc della municipalità di Chongqing, Sun Zhengcai. Un’elezione suppletiva si è tenuta nella municipalità per surrogare i delegati eliminati, portando il numero totale dei delegati partecipanti al 19° congresso a 2.280, cui si sono uniti 74 delegati speciali con diritto di voto (teyao daibiao, 特邀代表), retaggio di una tradizione che risale al 13° congresso, quando – dopo le dimissioni traumatiche dell’allora Segretario generale Hu Yaobang – si vollero coinvolgere 61 leader del partito in pensione per superare la crisi politica attraverso la costruzione di un ampio consenso tra le diverse generazioni.
[43] Grande enfasi è posta sull’integrità politica dei candidati, sui loro standard morali, sugli ideali da questi professati e sulla qualità del lavoro svolto. Tra le cause di esclusione dal novero dei possibili candidati a delegato, invece, corruzione, fazionalismo, ipocrisia, tiepidezza nella lealtà politica, mancato allineamento con le priorità indicate dalle autorità centrali del partito e relazioni con esponenti di paesi terzi che possano configurare forme di interferenza nella vita politica cinese.
[44] In particolare, con riferimento alle unità elettorali territoriali nella Cina continentale, l’articolo 25 dello statuto del Pcc individua quattro livelli a cui si svolgono i congressi del partito: in ordine gerarchico ascendente, distretto (xiangji, 乡级), contea (xianji, 县级), prefettura (diji, 地级) e provincia (shengji, 省级). I vertici di partito a livello provinciale sono responsabili per le liste dei candidati ai posti di delegato al congresso nazionale allocati per la rispettiva unità elettorale.
[45] Le regioni autonome di Tibet e Xinjiang sono state autorizzate a selezionare i delegati al congresso nazionale attraverso una procedura “elettorale” differente e non competitiva, nota come “elezione a candidato singolo” (denge xuanju, 等额选举): in questo caso il numero dei candidati in lista è uguale a quello dei posti da delegato.
[46] Queste informazioni sono state rese note attraverso vari canali, tra cui il sito dell’Ufficio informazioni del Consiglio degli affari di stato: http://www.scio.gov.cn/32618/Document/1571148/1571148.htm.
[47] Si veda la precedente nota 46.
[48] Non è possibile avere accesso alle liste dei candidati su cui si pronunciano i delegati al congresso nazionale, ma gli osservatori delle dinamiche di élite politics in Cina analizzano con attenzione i profili dei membri supplenti nei vari congressi. Infatti, se l’elenco dei membri effettivi del Comitato centrale è stilato in ordine “alfabetico” (ossia ordinandolo secondo il numero di tratti che compongono i caratteri del loro cognome e nome), quello dei supplenti è riportato in base al numero dei voti ricevuti, in ordine decrescente. In questo modo, il membro supplente che ha raccolto il maggior numero di consensi è in pole position per subentrare quale membro effettivo nel caso in cui uno dei membri effettivi eletti dal congresso dovesse venire meno (per espulsione o morte) nell’arco dei cinque anni che separano un congresso dal successivo.
[49] Si veda la nota 49. Per un recente ottimo studio sui congressi nazionali del Pcc redatto da un insider, Wu Guoguang, China’s Party Congress: Power, Legitimacy, and Institutional Manipulation (Cambridge: Cambridge University Press, 2015).
[50] La prima sessione plenaria del 19° Comitato centrale si è tenuta il 25 ottobre 2017.
Nell’ambito della visita di Stato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella Repubblica Popolare Cinese, conclusasi il 12 novembre scorso, è stato rinnovato il Memorandum of... Read More
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