Dopo i festeggiamenti per il decimo anniversario dell’auto-proclamata dichiarazione di indipendenza dalla Repubblica di Serbia, il Kosovo continua il proprio tortuoso percorso di stabilizzazione politica affrontando uno dei capitoli più critici del suo lungo confronto diplomatico con Belgrado.
L’attuale diatriba su un possibile “aggiustamento territoriale” proposto, e poi subito ritratto, del presidente kosovaro Hashim Tahçi come prerogativa all’accordo sulle municipalità a maggioranza serba nella regione settentrionale del paese, evidenza la criticità endemica del rapporto tra Serbia e lo stato più giovane del continente europeo. All’incessante richiesta di Belgrado di riconoscere la propria legittimità politica nel nord del Kosovo, Pristina richiederebbe il diritto alla piena autonomia delle cittadine a maggioranza albanese della Valle di Preševo a sud della Serbia. Un accordo, quest’ultimo, apparso fin da subito deleterio non solo per i principi (etno-nazionalisti) sui quali potrebbe essere sancito, ma soprattutto per le ripercussioni nel percorso di integrazione dei due paesi nell’Unione Europea e all’interno di una “regione patologica” come quella balcanica.
Le comunità serbe in Kosovo non rappresentano solo una rilevante entità politica nella regione settentrionale del paese – ossia quella più contestata in quanto al confine con il territorio della Repubblica di Serbia – ma, anche nelle aree meridionali del Kosovo, esse contribuiscono, seppur in forma ancor più minoritaria, al dibattito interno riguardante fenomeni e processi di riconciliazione e stabilizzazione nelle relazioni con Belgrado.
Dal 2008, una certa propensione accademica e internazionale all’analisi del sensazionale scenario multietnico della “città divisa” di Kosovska Mitrovica/Mitrovicë (da tutti conosciuta come Mitrovica) ha prodotto un vuoto nelle aree centrali e soprattutto meridionali abitate storicamente da importanti comunità serbe. Tra le più celebri si ricordano quelle di Prizren/Prizeni, Peć/Pejë e Dečani/Deçan, colpite dai tumulti etnici della primavera del 2004 e da una costante marginalizzazione, e quella della de facto enclave di Velika Hoča/Hocë e Madhe che conta attualmente poco meno di seicento abitanti. Con le sue tredici chiese ortodosse del XIV e XVI secolo, molte delle quali in stato di parziale abbandono, Velika Hoča rimane luogo di pellegrinaggio per molti Serbi provenienti dal Kosovo, dalla stessa Serbia e dal vicino Montenegro. Se la guerra del 1996-1999 ha provocato un repentino esodo di profughi dall’area, negli anni successivi è seguita la fuoriuscita di decine di abitanti verso Mitrovica e le città di Niš e Belgrado.
Proprio Mitrovica, rompicapo politico della diplomazia serbo-kosovara, rimane tra le destinazioni più gettonate per i giovani di Velika Hoča nel tentativo di fuggire dall’esclusione sociale dell’enclave. Questi ultimi, in gran parte studenti universitari o giovani lavoratori, producono un effetto distorto all’interno della comunità: alla loro forzata mobilità si evidenzia un parallelo movimento di idee, opinioni e visioni sul futuro delle difficili dinamiche di interazione con la popolazione albanese a Mitrovica che, sicuramente, non rispecchia lo scenario socio-politico delle aree meridionali intorno a Velika Hoča. Il racconto delle esperienze quotidiane nel nord del Kosovo lede la fragile positività di alcuni membri di Velika Hoča riguardo al loro futuro e a quello del paese, ostacolando ogni minimo tentativo di ripristinare rapporti interpersonali con gli albanesi dei villaggi poco lontani.
L’alto livello di povertà dovuto alla mancanza di opportunità lavorative e servizi pubblici rimane l’aspetto più problematico della quotidianità e il principale ostacolo allo sviluppo economico e sociale tra la maggioranza albanese-kosovara e la minoranza serba. Sebbene gli incidenti del 2004 peggiorarono il quadro interetnico tra le due comunità, Velika Hoča non fu minimamente interessata dagli eventi, nonostante l’eco delle violenze contro i luoghi di culto ortodossi – ampliata dalla retorica nazionalista dei media di Belgrado – non abbia avuto un effetto positivo tra i membri della comunità.
Il continuo peggioramento delle già pessime condizioni economiche e il mancato ritorno dei profughi serbi in Kosovo per via di una diffusa convinzione di un imminente riacuirsi del conflitto etnico, hanno negativamente contribuito a un ulteriore impoverimento del tessuto sociale. Ricercatori e analisti hanno evidenziato come il cosiddetto regime di “cittadinanza parallela” dei cittadini serbi del Kosovo abbia favorito – al di là dei suoi controversi aspetti normativi – la formazione di un limbo esistenziale. Se nella regione settentrionale del Kosovo la maggioranza serba usufruisce dei forti collegamenti che Belgrado ha costruito fin dopo il 2008, cercando di interferire nella politica domestica kosovara, nelle aree meridionali la condizione è diametralmente diversa. Così come i pochi Serbi di Prizren/Prizeni, Peć/Pejë e Dečani/Deçan, la comunità di Velika Hoča conduce una propria quotidianità in un’atmosfera completamente diversa nonostante le restrizioni riguardanti la mobilità fuori i confini kosovari e un sistema parallelo gestito da Belgrado (ad esempio in relazione ai sistemi scolastico, fiscale e pensionistico) che non è completamente usufruibile per gli ovvi contrasti con le istituzioni kosovare.
Tale scenario ha prodotto negli anni un vuoto politico-istituzionale a Velika Hoča che ha lasciato sempre più spazio all’affermazione di istituzioni religiose, a cui i Serbi rimangono fortemente legati per affiliazioni storiche e legami religiosi. Tutto ciò ha favorito la crescita di una disaffezione politica nei confronti delle stesse istituzioni di Belgrado e della Lista Serba (Srpska Lista), gruppo politico rappresentativo della minoranza. Distante dall’accesa retorica nazionalista dei centri urbani di Mitrovica, Leposavić/Leposaviq e Zvečan/Zveçani nel nord del paese, così come da quelli più meridionali come la cittadina di Štrpce/Shtërpcë, appare evidente come gli abitanti di Velika Hoča abbiano dato voce a un’assodata ma ancora poco conosciuta critica politica sviluppatasi dal basso. Ciononostante, il tessuto comunitario di Velika Hoča appare solido nella riproduzione giornaliera della propria “identità nazionale” (vale a dire tradizioni, cultura popolare, referenze etno-religiose), con banali pregiudizi etnici nei confronti dei Turchi e degli Albanesi ancora presenti. Ad esempio, l’ingresso a Velika Hoča viene sancito da una più che visibile bandiera nazionale serba che, sventolando sopra il monumento dedicato ai serbi uccisi o rapiti tra il 1998 e 1999, demarca una divisione territoriale con i villaggi circostanti. Tutto ciò, al contrario delle normali apparenze, non sembra aver leso la forte critica contro la sfera politica che ha recentemente prodotto anche un miglioramento delle relazioni interpersonali con gli abitanti delle cittadine circostanti. La presenza di lavoratori albanesi all’interno di Velika Hoca rimane l’emblema del cambiamento attualmente in atto.
Sebbene una tale prospettiva bottom-up rimanga “cacofonica” dinnanzi a un forte senso di quotidiana riproduzione dell’identità serba e a una crescente disaffezione nei confronti delle istituzioni di rappresentanza politica, a Velika Hoča la comunità serba ha iniziato a esprimere nella sua quotidianità tale critica. Molti hanno rinunciato ai loro documenti serbi per iniziare la procedura per l’ottenimento di quelli kosovari; altri criticano i continui tentativi di Belgrado di interferire nella politica kosovara attraverso la Srpska Lista, precludendo alla minoranza serba un miglioramento delle relazioni sociali. Altri ancora definiscono come problematico il regime di “cittadinanza parallela” attraverso il quale, sempre secondo Belgrado, le comunità serbe dovrebbero ricevere una maggiore protezione rispetto a quella garantita dalle istituzioni di Pristina, ma che in realtà complicano la quotidianità nelle sue dimensioni più semplici come ad esempio in ambito lavorativo.
Un tale scenario, complesso nonostante la ridotta portata geografica, pone nuove sfide alla comprensione delle dinamiche in aree marginalizzate di paesi post-conflitto. Nella fattispecie, il caso studio di Velika Hoča mostra come una diversificazione del dibattito sulle presenti e future relazioni tra Serbia e Kosovo eviterebbe una polarizzazione all’interno della regione settentrionale del paese. Così facendo, maggiore attenzione verrebbe dedicata anche a quelle dinamiche politico-sociali nelle aree meridionali e più marginalizzate del Kosovo al di fuori dai contesti urbani che contribuirebbero a una più omogenea e completa analisi da utilizzare nella promozione di eventuali processi di pacificazione. In secondo luogo, è importante notare come la “sfera del quotidiano”, rimasta spesso subalterna a un’analisi top-down, appaia uno dei maggiori indicatori di pace (peace indicator) all’interno dei contesti geografici più marginali. Soprattutto nello spazio post-jugoslavo, un’analisi delle pratiche sociali quotidiane e delle norme comportamentali riprodotte all’interno e al di fuori di talune comunità, potrebbe sviluppare un interessante paradigma di ricerca se comparato al contesto istituzionale, normativo e di rappresentanza politica. In terzo luogo, è interessante evidenziare come quel fattore generazionale che all’interno della letteratura degli scenario post-conflitto dell’Est europeo viene descritto come indicativo di una possibilità di cambiamento e critica verso le retoriche nazionaliste delle vecchie generazioni di reduci e vittime, si manifesta in maniera opposta all’interno di Velika Hoča. Sono infatti proprio le giovani generazioni che appaiono incapaci di ribaltare una narrativa nazionalistica, (in)consciamente importata da aree diverse e molto più problematiche. In ultimo, la proposta del principio di “buon vicinato” (good-neighbourliness), molto utilizzato nello scenario post-jugoslavo, deve prescindere da un’accurata e precedente analisi delle caratteristiche geografiche e storiche dell’area stessa. Se in determinate regioni contestate della Bosnia, ad esempio, tale principio appare fondamentale per un ripristino della normalità quotidiana tra le diverse comunità, casi come Velika Hoča evidenziano tutti i limiti di tale approccio.
Questo articolo è una breve analisi della ricerca “Being a Good Person in Kosovo: A Serbian Perspective from below” sostenuta da Kosovo Foundation for Open Society (KFOS) nell’ambito del progetto di ricerca “Building Knowledge on Kosovo (v.2.0)“.
Per saperne di più
Randazzo, E. (2015) Changing Narrative? Shifting Discursive Conceptualisations of Post-Conflict Peace-Building, University of Westminster. Disponibile su: http://westminsterresearch.wmin.ac.uk/15488/1/Randazzo_Elisa_thesis.pdf
Knott, E. (2015) Everyday Nationalism: A Review of the Literature. Disponibile su: https://www.researchgate.net/profile/Eleanor_Knott/publication/308874132_Everyday_Nationalism_A_Review_of_the_Literature/links/57f3c27808ae8da3ce537579/Everyday-Nationalism-A-Review-of-the-Literature.pdf
Limanai, L. (2018) “Thaci: No partition, no swaps, no autonomy for North Kosovo”, Pristina Insight, 08/08/2018. Disponibile su: https://prishtinainsight.com/thaci-no-partition-no-swaps-no-autonomy-for-north-kosovo/
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