A quarant’anni dal termine della guerra e dalla riunificazione politica del Paese, il Vietnam è oggi ancora diviso in due. Dal 1986, il governo ha iniziato l’attuazione di un programma di rinnovamento sociale ed economico (doi moi in vietnamita), che ha coinvolto tutte le fasce della popolazione e i settori dell’economia. In particolare, i pilastri fondamentali del processo di rinnovamento economico hanno riguardato la trasformazione del sistema economico da un modello di pianificazione centrale a uno di mercato. Le terre delle fattorie collettive sono state redistribuite ai contadini sulla base della numerosità dei nuclei familiari; è stata promossa l’iniziativa imprenditoriale privata e i salari sono stati agganciati a misure di produttività e abilità.
Tutto questo ha permesso al paese di seguire un sentiero di crescita dei redditi stabile ed elevata, con tassi simili a quelli conosciuti dalla Cina. Il processo è stato graduale ed è stato reso più facile dalle strutture economiche e sociali delle regioni meridionali, nelle quali la transizione dall’economia di mercato a quella socialista non era mai stata compiuta. Queste strutture di mercato sono state utilizzate come base di partenza per la transizione inversa a partire dalla pianificazione socialista.
Molto promettente nelle intenzioni, il programma di rinnovamento è stato però caratterizzato da un lato da episodi di corruzione e familismo che hanno condotto a realizzazioni in parte distorte; inoltre a questi problemi si sono sommate le inevitabili imperfezioni che un percorso di transizione porta con sé. Gli aspetti positivi hanno riguardato la rapida industrializzazione, la modernizzazione della produzione, il forte afflusso di investimenti diretti esteri (IDE), la crescita delle esportazioni e quella dei redditi. Quest’ultima, in particolare, ha permesso di ridurre la quota della popolazione al di sotto della soglia di povertà dal 49,2% del 1992 al 3,2% del 2012 (ultimo anno per cui il dato è disponibile). Indubbiamente si tratta di risultati ragguardevoli, soprattutto se paragonati ad altri casi di Paesi in via di sviluppo.
Accanto ai dati riportati nelle due figure e sintetizzati in precedenza, ve ne sono però altri che giustificano l’affermazione iniziale. Come sempre, gli indicatori macroeconomici offrono una rappresentazione sintetica di un paese. In altri termini, i dati macroeconomici sono veri “in media” per i cittadini di un Paese, ma al loro interno possono nascondere storie molto diverse, come nel caso del Vietnam. Infatti, un certo valore di reddito medio può essere originato da distribuzioni del reddito tra i cittadini molto diverse tra loro. Se la riduzione della povertà assoluta all’interno di un Paese è certamente un obiettivo importante, non meno rilevante è la questione della distribuzione dei redditi, dal momento che, se questa è molto diseguale, anche in presenza di un basso numero di poveri assoluti, vi sarà comunque uno elevato di poveri relativi (di coloro cioè il cui reddito è inferiore al 60% della media nazionale).
Il processo di rinnovamento attuato in Vietnam ha dato ottimi risultati in termini di crescita dei redditi nelle attività industriali e terziarie, concentrate soprattutto nei centri urbani del Paese, mentre ha prodotto una crescita molto minore dei redditi del settore agricolo, che ancora nel 2013 produceva oltre il 18% del PIL vietnamita, occupando il 47% circa della forza lavoro. Sebbene la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, misurata attraverso l’indice di Gini, sia maggiore nelle aree urbane (0.33) che in quelle rurali (0.30), nelle prime si è osservata una sostanziale stabilità, mentre nelle seconde la diseguaglianza è cresciuta. Accanto a questo divario in termini dinamici (che in termini assoluti può sembrare scarsamente rilevante), occorre sottolineare che i redditi nelle aree rurali sono cresciuti più lentamente che in quelle urbane e che le famiglie residenti in queste ultime ricevono dai propri parenti emigrati rimesse maggiori rispetto alle famiglie residenti nelle campagne. La somma di questi fenomeni ha ampliato il divario tra i redditi delle due aree, a favore dei vietnamiti residenti nelle città. La differenza in termini di redditi reali tra le campagne e le città è quasi raddoppiata nel corso degli ultimi trent’anni, rendendo i contadini vietnamiti, che pure sono più ricchi di un tempo in termini assoluti, relativamente molto più poveri dei loro concittadini residenti nelle aree urbane.
Da un punto di vista politico, questo risultato rappresenta senza dubbio un motivo d’allarme. La soddisfazione degli individui per la propria situazione e il conseguente sostegno alle politiche che vengono attuate dipende infatti non dalla posizione assoluta di ogni cittadino, ma da quella relativa. Questo significa che, dati due poveri dotati dello stesso reddito, che vivono uno tra altri poveri e l’altro tra persone ricche, la soddisfazione e il supporto alle politiche governative del primo saranno molto maggiori di quelli del secondo. Il divario crescente tra campagne e città, dato l’elevatissimo numero di vietnamiti occupati nel settore agricolo, rappresenta quindi una questione politica rilevante, in quanto il processo di transizione, sebbene ancora visto con favore dalla maggioranza della popolazione in entrambe le aree, sta perdendo il consenso dei lavoratori agricoli. Tra il 1990 e il 2005 si è infatti potuto osservare che la percentuale di sostenitori di un’economia di mercato nelle campagne è diminuita di circa 5 punti percentuali, mentre nelle aree urbane è leggermente aumentata (circa 2,5 punti percentuali). Sebbene sia verosimile attendersi una riduzione progressiva del numero degli occupati nel settore primario, a vantaggio di quelli nel secondario e terziario, il governo vietnamita dovrebbe iniziare a progettare politiche di intervento contro il divario città-campagna, al fine di assicurarsi il maggior consenso possibile. Il controllo esercitato dal partito unico al potere sul sistema politico è solo parzialmente una garanzia della stabilità del processo di riforme: l’assenza di alternative politiche, infatti, non implica che fasce della popolazione particolarmente insoddisfatte non attuino forme di opposizione al di fuori del contesto elettorale e parlamentare, con effetti destabilizzanti sulla tenuta sociale del paese che possono andare ben oltre il semplice arresto del processo riformatore.
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