Nel 2014 il turbolento scacchiere geopolitico all’intersezione tra Asia centrale e meridionale è destinato a entrare con prepotenza negli equilibri tra le principali potenze mondiali. La regione va assumendo una rilevanza inedita, legata non soltanto all’instabile teatro afghano, ma soprattutto alla strategia cinese per la sicurezza energetica, economica, idrica e – non ultimo – militare.
Il problema approvvigionamenti idrici è troppo spesso sottovalutato, ma può creare tensioni anche gravi nel vicinato della Rpc. Se la cooperazione energetica tra la Cina e i paesi dell’Asia centrale e meridionale ha raggiunto importanti traguardi, le relazioni bilaterali sotto il profilo della produzione agricola e dei diritti di utilizzo delle acque sono ancora frustrate da significative differenze di vedute. Un esempio sono i 1.780 chilometri di confine che la Cina condivide con il Kazakistan, attraversati da più di 30 fiumi. Nonostante i vertici della Shanghai Cooperation Organisation abbiano progressivamente esteso il mandato dell’organizzazione a temi legati allo sviluppo economico sostenibile, le controversie sull’uso e sull’inquinamento delle fonti idriche sono una crescente fonte di preoccupazione. Benché il Kazakistan benefici di abbondanti corsi d’acqua, quasi un terzo di essi giunge dai paesi vicini, compresi i due maggiori fiumi della regione: l’Eerqisi e l’Ili, le cui sorgenti si trovano in Cina. L’utilizzo intensivo di acqua o la costruzione di nuove dighe da parte di Pechino è una spada di Damocle che grava sullo sviluppo agricolo e sociale kazako.
Dal punto di vista della sicurezza e della stabilità sociale, l’incremento della coltivazione di papaveri da oppio registrato in Afghanistan negli ultimi due anni porterebbe il totale delle terre dedicate a questa coltura a 200.000 ettari, secondo le stime dello United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc). I profitti dei traffici di droga (in particolar modo eroina) attraverso i confini porosi del Tagikistan e del Kirghizistan verso Russia, Europa e Cina sono un’importante risorsa per il mantenimento di organizzazioni criminali e terroristiche transnazionali.
Nel contempo, nell’area afgano-pachistana potrebbe svilupparsi una cooperazione tra Washington e Pechino. Durante l’incontro tra i presidenti Xi e Obama dello scorso giugno, Cina e Stati Uniti hanno iniziato a prendere in considerazione una serie di azioni per gestire il problema afgano. Per le repubbliche centro-asiatiche e per la stessa Cina l’evoluzione della missione Isaf verso un nuovo mandato e il previsto ridimensionamento del dispositivo statunitense nel paese – se non addirittura l’ “opzione zero” di un ritiro totale – non possono che significare un incremento del crimine transnazionale e del terrorismo di matrice islamica.
Il deterioramento della stabilità in Afghanistan e nelle aree tribali pachistane ha ricadute immediate sulla stabilità delle neonate repubbliche centro-asiatiche e sulla provincia cinese dello Xinjiang, a partire da un incremento dei traffici di eroina e armi, oltre che di denaro riciclato, sino a un aumento dei flussi di jihadisti addestrati durante il conflitto afgano e di ritorno nei territori di origine. I recenti attentati rivendicati dall’Etim nei pressi della città di Kashgar e nelle aree di confine dello Xinjiang ne sono un esempio. D’altro canto, l’ormai imponente presenza economica cinese nella regione costringe Pechino a mutare la propria strategia di azione passiva, in favore di un maggiore protagonismo politico – seppur riluttante – sullo scenario internazionale.
Recentemente Washington ha iniziato a dedicare più attenzione alla situazione in Asia centrale e meridionale. Alexandros Peterson, prolifico autore di saggi e libri sul ruolo della Cina in Asia, ha riflettuto sulle concrete possibilità di integrazione dell’area. Nel suo libro The World Island: Eurasian Geopolitics and the Fate of the West sottolineava come ignorare le dinamiche in atto in Asia centrale sia per l’Occidente un grave errore. Peterson è deceduto a Kabul lo scorso gennaio, all’età di 29 anni, durante un attacco suicida da parte di un commando talebano. Il suo impegno come ricercatore e divulgatore prosegue sul blog da lui creato con il collega Raffaello Pantucci e la fotografa Sue Anne Tay.
Sul piano internazionale Cina, Stati Uniti e Unione europea hanno la possibilità di operare all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per rafforzare azioni di coordinamento. Sul piano regionale la Cina – con la prossima riunione ministeriale dell’Istanbul Process, che si terrà a Pechino a metà anno – può concretamente avviare l’implementazione di un processo di integrazione economica.
Sempre in ambito regionale non è da sottovalutare il ruolo di paesi come il Kazakistan, il cui ambasciatore Timur Urazayev è da tempo impegnato con le controparti afgana e cinese per il lancio di programmi di sviluppo locali mirati a risorse umane e infrastrutture. Vi è ampio spazio di collaborazione internazionale su questioni come lotta al narcotraffico e protezione dei confini, anche a seguito degli incoraggianti risultati raggiunti dai programmi di cooperazione dell’Unione europea avviati sui confini tagichi e kirghizi. Dal punto di vista della sicurezza tradizionale rimangono ancora notevoli passi da compiere per l’avvicinamento tra Cina e Stati Uniti nell’area. Non mancano infatti i contrasti su temi come le missioni dei droni americani, l’“amicizia sino-pachistana” e la differente definizione di terrorismo adottata da Washington e Pechino.
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