Nell’ottobre dello scorso anno Hollywood è diventata l’epicentro da cui si è propagata la campagna virale #MeToo. Nata in reazione alle numerose accuse di molestie mosse contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein, l’iniziativa ha ben presto superato i confini della città del cinema trasformandosi in un fenomeno globale che ha portato a rompere, in diversi paesi, il muro di silenzio dietro al quale spesso si celano episodi di molestie e abusi sessuali. Riuniti sotto l’hashtag #MeToo – in Italia #quellavoltache – migliaia di donne, e in alcuni casi anche uomini, hanno deciso di raccontare le proprie esperienze con l’obiettivo di denunciare i propri molestatori, sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento e chiedere una risposta adeguata ai rispettivi governi. La campagna ha ovviamente assunto sfumature diverse in ciascuno dei diversi paesi in cui si è andata propagando, incontrando diffuso sostegno e in alcuni casi anche critiche ed ostacoli.
Da #MeToo a #WoYeShi
La Cina non è rimasta estranea e con il nuovo anno la campagna #MeToo si è fatta largo tra le pieghe del Great Firewall, il muro censorio virtuale che oltre a silenziare le voci di dissenso interne “protegge” l’armonia cinese dalle influenze straniere che viaggiano sul web. Contrariamente a quanto successo negli Stati Uniti, la campagna #MeToo in Cina non è partita dal mondo dello spettacolo, ma da un post pubblicato sulla piattaforma di microblogging Sina Weibo. La mattina del primo gennaio 2018, Luo Xixi, una ex dottoranda della Beihang University di Pechino ora ingegnere informatico negli Stati Uniti, pubblicava sul suo profilo un lungo articolo di denuncia accusando il professor Chen Xiaowu, suo supervisore ai tempi del dottorato, di aver molestato in più occasioni lei e altre studentesse della stessa facoltà. In meno di ventiquattro ore, il post ha raggiunto oltre 3,7 milioni di visualizzazioni e più di 16.000 condivisioni. L’hashtag #WoYeShi (#我也是) – traduzione letterale del corrispettivo inglese #MeToo – iniziò così a diffondersi sui social media cinesi.[1] Nei giorni seguenti la notizia fu ripresa dai principali quotidiani nazionali, come il Quotidiano del Popolo (Rénmín Rìbào, 人民日报) ed il Global Times (Huánqiú Shíbào, 环球时报), mentre il Ministero dell’Istruzione annunciava di voler far luce sulla questione molestie all’interno dei campus universitari. Nonostante le iniziali dichiarazioni di intenti, le autorità di Pechino hanno ben presto cambiato rotta, cercando di arginare la diffusione di articoli e commenti connessi al tema, piuttosto che proporre misure volte ad affrontare il problema. In quanto movimento nato al di fuori dei canali ufficiali, la campagna #WoYeShi è stata vista con estrema diffidenza dalle autorità. La potenziale deriva anti-governativa di una incontrollata protesta collettiva dal basso rappresenta, come in altre occasioni, una fonte di inquietudine per il Partito comunista cinese.
Luo Xixi è solamente l’ultima di una lunga serie di silence breakers che hanno provato a portare in superficie il problema delle molestie e degli abusi sessuali in Cina. Negli ultimi cinque anni numerosi studi hanno dimostrato che la questione rappresenta un problema complesso che attraversa l’intera società. Nel 2009 una ricerca condotta dalla City University di Hong Kong aveva rivelato che circa l’80% delle donne cinesi in età lavorativa aveva subìto, almeno in un caso, molestie verbali o fisiche da parte di colleghi o datori di lavoro. Tra di esse solamente lo 0,5% aveva denunciato l’accaduto alle autorità competenti, mentre appena il 3,6% aveva esposto il problema ai propri superiori.[2] In uno studio più recente, pubblicato lo scorso anno dal Guangzhou Gender and Sexuality Education Center, su un campione di circa 6.500 studenti, il 69% ha dichiarato di aver subìto abusi durante il proprio percorso di studi.[3] Attualmente solo il 5% delle università cinesi prevede corsi di prevenzione o centri di sostegno, mentre risultano ancora inesistenti procedure standardizzate che consentano agli atenei di accogliere le denunce degli studenti e perseguire gli eventuali responsabili. Al contrario, come dimostrano i racconti condivisi online nei giorni scorsi, diverse facoltà hanno fatto pressione sui propri allievi invitandoli a non pubblicare sui social le loro denunce per non “disonorare” il nome dell’ateneo.[4] Dalle università alle fabbriche, i numeri parlano di decine di migliaia di violenze fisiche e psicologiche, spesso taciute per paura del giudizio della comunità, per pressioni ricevute da propri superiori, o più generalmente per l’esistenza di un sistema di leggi vacuo che implicitamente incoraggia le vittime a rimanere in silenzio. La questione delle molestie in Cina appare dunque come il frutto di una commistione di problemi sociali, politici e giuridici che si lega a doppio nodo ad un problema più ampio, ovvero la caratterizzazione del ruolo della donna all’interno della società cinese. Un processo, questo, che ancora fatica a trovare una definizione coerente all’interno della narrativa di Stato.
Nel 2011 è stato varato il “Programma di Sviluppo delle Donne Cinesi 2011-2020” (Zhōngguó fùnǚ fāzhǎn gāngyào 2011-2010 nián, 中国妇女发展纲要2011-2020年) che contiene una serie di linee guida per l’implementazione del corpo normativo riguardante il contrasto alla disparità di genere. Nel documento si fa largo riferimento alla necessità di contrastare le discriminazioni nel mondo del lavoro e tutelare l’accesso alla sanità e all’istruzione per le donne; tuttavia, non vi è alcun riferimento alla questione delle molestie verbali o fisiche. Nonostante vada riconosciuta l’esistenza di un dibattito interno al partito in merito alla questione, molto spesso è il governo stesso a frenare qualsiasi iniziativa spontanea che tenti di sopperire alle proprie mancanze. Nel 2015, anno in cui è stata varata la legge contro le violenze domestiche, cinque attiviste indipendenti sono state arrestate e detenute per più di un mese con l’accusa di aver organizzato la distribuzione di materiale informativo anti-violenza in alcune stazioni della metropolitana di Pechino.[5] Alla problematicità della questione si lega dunque anche la reticenza del governo a lasciare libertà di manovra a movimenti o associazioni della società civile che non facciano parte o che non siano emanazione diretta della All-China Women’s Federation, l’organizzazione che si occupa ufficialmente delle politiche di genere dal 1949.
L’importanza del dialogo con le organizzazioni internazionali e con l’Europa
La partecipazione della Cina a forum internazionali riguardanti i diritti delle donne ha certamente facilitato il processo legislativo per la creazione di maggiori garanzie e tutele nei confronti della popolazione femminile. Il paese ha ratificato la “Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione Contro le Donne” (CEDAW) nel 1980 e nel 1995 Pechino è stata la sede ospitante della Quarta Conferenza Onu sulle donne. Più recentemente, nel 2012, i diritti delle donne hanno rappresentato uno dei principali temi di discussione al secondo incontro dello EU-China High Level People-to-People Dialogue (HPPD), nel quale entrambe le parti si sono impegnate per la creazione di tavoli di lavoro per favorire lo scambio di esperienze e proposte di policy tra le rispettive associazioni. Nel 2017 sono stati due gli eventi organizzati congiuntamente dalla Federazione Nazionale delle Donne Cinesi e dalla European Women’s Lobby, il suo corrispettivo a livello europeo. Il primo, tenutosi a Vilnius a maggio, sul tema “Economic Empowerment of Women in Europe and Asia” ed il secondo ospitato a Shanghai lo scorso novembre, dove i rappresentanti si sono confrontati su “Work-Life Balance and Gender Pay Gap”.[6]
Nonostante la crescente apertura della Cina alla cooperazione nell’ambito della tutela dei diritti delle donne, ad oggi gli sforzi del paese si sono concentrati unicamente verso la risoluzione degli aspetti inerenti alla dimensione economica del problema. Le scelte contraddittorie che hanno caratterizzato la risposta di Pechino alla campagna #WoYeShi dimostrano ancora una volta la mancanza di volontà da parte del governo di impostare una linea politica chiara e decisa su un tema di interesse significativo per il 48% dell’intera popolazione, circa 670 milioni di donne cinesi.
L’autore desidera ringraziare Melina Selivanov per l’aiuto svolto nella ricerca dei dati sulla cui base è stato redatto il presente articolo.
[1] Manya Koetse, “#MeToo in China is #WoYeShi: Sexual Misconduct Allegations Rock Beijing University”, What’s on Weibo: Reporting Social Trends in China, 3 gennaio 2018, https://www.whatsonweibo.com/metoo-china-woyeshi-sexual-misconduct-allegations-rock-beijing-university/.
[2] Dilip K. Srivastava e Gu Minkang, “Law and Policy Issues on Sexual Harassment in China: Comparative Perspectives”, Oregon Review of International Law, 11 (2009) 1: 43-69.
[3] Su Weichu, “Bàogào chēng gāoxiào xìngsāorǎo zhōng guòbàn de rén xuǎnzé chénmò hé rěnnài” (Rapporto mostra che più della metà delle persone che hanno subìto molestie sessuali in università preferisce rimanere in silenzio e sopportare), Jiemian News, 13 aprile 2017, http://www.jiemian.com/article/1245048.html.
[4] Christian Shepherd, “China’s #MeToo Movement in Colleges Initially Encouraged by Authorities, then Frustrated”, Reuters, 31 gennaio 2018, https://www.reuters.com/article/us-china-harassment-insight/chinas-metoo-movement-in-colleges-initially-encouraged-by-authorities-then-frustrated-idUSKBN1FJ33W.
[5] Li Maizi, “I Went to Jail for Handing out Feminist Stickers in China”, The Guardian, 8 marzo 2017, https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/mar/08/feminist-stickers-china-backash-women-activists.
[6] “EU-China High-Level People-to-People Dialogue – Detail”, consultabile all’Url
http://ec.europa.eu/education/policy/international-cooperation/china_en.
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