La messa di inaugurazione di Papa Francesco è stata l’occasione dell’ultima incomprensione tra Cina e Vaticano. La presenza del Presidente di Taiwan Ma Ying-jeou a Roma per salutare l’inizio del pontificato di Jorge Mario Bergoglio ha scatenato la reazione di Pechino: “Il Vaticano dovrebbe riconoscere il governo cinese come l’unico rappresentante legale di tutta la Cina”, ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hong Lei. La risposta della Santa Sede non si è fatta attendere, con padre Federico Lombardi, capo della sala stampa vaticana, che ha precisato come la Chiesa non faccia mai inviti per gli avvenimenti: “Se qualcuno vuole venire è benvenuto, anche se non ha rapporti diplomatici con la Santa Sede”. La speranza, fino all’ultimo, era forse quella di una presenza in Vaticano di un’importante personalità cinese, magari del mondo della cultura, anziché della politica, che da pochi giorni aveva terminato il processo di successione al vertice del potere. La presenza di Ma in Vaticano ha provocato anche una protesta cinese – poi rientrata – nei confronti del governo italiano per avere rilasciato un visto d’ingresso al leader taiwanese.
Quella di Ma è stata la seconda visita di un presidente dell’isola in Vaticano: la prima volta era stato otto anni fa, nel 2005, quando il suo predecessore Chen Shui-bian aveva partecipato ai funerali di Giovanni Paolo II. La Santa Sede è uno dei 23 paesi al mondo che riconoscono Taipei anziché Pechino come rappresentante della Cina. La Repubblica popolare espulse l’ultimo nunzio apostolico nel 1951.
La fiammata polemica tra Pechino e Santa Sede comprende però anche una nota di distensione: l’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Roma aveva reso noto, il giorno prima della cerimonia, che non ci sarebbero state personalità politiche alla messa inaugurale del nuovo pontefice, ma l’ambasciatore Ding Wei, tramite il portavoce Li Xiaoyong, aveva voluto comunque porgere le congratulazioni al nuovo Papa per l’inizio del pontificato. Nel periodo intercorso tra l’annuncio delle dimissioni di Papa Ratzinger e l’elezione di Papa Bergoglio, la Cina ha mantenuto una posizione sul Vaticano in linea con quanto già espresso in precedenza, sintetizzabile in due grandi punti fermi: la speranza che il nuovo pontefice non usi la religione per interferire negli affari interni del paese, e l’auspicio che la Santa Sede trasferisca il riconoscimento a Pechino – anziché Taipei – come capitale dell’“unica Cina”.
Le proteste cinesi, secondo molti osservatori, hanno mantenuto un tono pacato, complice forse la nomina a presidente di Xi Jinping, avvenuta nelle stesse ore in cui veniva eletto il nuovo pontefice. A ciò si è forse aggiunto il desiderio di non turbare l’atmosfera cordiale tra la Repubblica popolare e Taiwan in un momento in cui i rapporti tra le due sponde dello stretto sono nel complesso buoni, dopo il ritorno al potere del Guomindang nel 2008. Sulla Santa Sede, invece, Cina e Taiwan mantengono atteggiamenti sempre più divergenti.
In tempi recenti, i rapporti tra Taiwan e Vaticano hanno vissuto un importante miglioramento. Nel dicembre 2011 è arrivata la storica firma dell’accordo sul riconoscimento dei titoli universitari fra le università ecclesiastiche legate al Vaticano e le università dell’isola, salutata come un grande successo sia dalla Santa Sede che da Taipei. Pechino, invece, ha mantenuto un atteggiamento di chiusura: repressioni poliziesche continuano a colpire le comunità cattoliche “clandestine” in Cina, mentre Pechino continua a obbligare la Chiesa cattolica “ufficiale” a una forma di auto-governo che di fatto impedisce la piena comunione con il Papa. In particolare, l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Apcc) e l’Amministrazione statale degli affari religiosi intervengono nella definizione della gerarchia ecclesiastica cinese con elevazioni episcopali che solo a volte sono canonicamente lecite. Il punto di maggiore tensione si è toccato nel luglio scorso, con la decisione da parte di Pechino di mettere agli arresti domiciliari in seminario il vescovo ausiliare di Shanghai, Taddeo Ma Daqin, pochi giorni dopo la sua ordinazione episcopale (autorizzata da Pechino e approvata dal Papa). Inaccettabile, agli occhi delle autorità cinesi, sarebbe stata la scelta di Mons. Ma di concludere la cerimonia di ordinazione con un discorso in cui annunciava le proprie dimissioni da membro dell’Associazione patriottica.
Con la conclusione dei lavori dell’Assemblea nazionale del popolo lo scorso marzo, si è completata la transizione al vertice del potere cinese, con la quinta generazione di leader guidata da Xi Jinping ora saldamente alla guida del Partito e dello Stato. Sin dai primi giorni, il nuovo leader cinese ha sottolineato l’importanza delle riforme e del rispetto della legge. Le voci, che ancora devono trovare conferma, sulla chiusura dei laojiao (si veda, in questo numero, il contributo di Giovanni Nicotera) hanno acceso una speranza di riavvicinamento tra i Sacri Palazzi e Zhongnanhai, sede del potere cinese. Almeno finora, però, sono andate deluse le speranze di chi pensava che un atteggiamento più riformista della nuova leadership potesse portare alla scarcerazione di religiosi detenuti in Cina. Senza effetti di rilievo è poi rimasta la lettera aperta sottoscritta da oltre cento intellettuali a febbraio scorso, in cui i firmatari – usando le stesse parole di Xi Jinping – chiedevano il rispetto dei diritti civili e la ratifica del Patto internazionale sui diritti civili e politici firmata da Pechino nel 1998.
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