“Penso che manchi ancora la capacità di rappresentare le nostre energie migliori nella dimensione necessaria richiesta dal mercato cinese”: a Hong Kong, dopo sei giorni ad alta intensità (24-30 ottobre), Giorgio Napolitano sembra quasi lasciarsi andare. Da Pechino all‟ex colonia britannica – passando per Macao e Shanghai -, nel corso del suo viaggio il Presidente della Repubblica ha visitato il padiglione italiano (uno dei grandi successi dell’Expo 2010) e la mostra dedicata a Matteo Ricci, incontrando il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, col quale aveva avuto un colloquio a Roma solo qualche settimana prima. Per Napolitano quella in Cina è stata “una delle missioni più significative del settennato”, e addirittura “uno dei punti essenziali della seconda metà del mandato”; ma cosa resta di questa visita di Stato al di là dell’etichetta?
Il capo dello Stato aveva esplicitato l’obiettivo della missione dal primo giorno, nel corso di una lezione tenuta all‟Aula Magna della Scuola centrale del Partito comunista cinese: proporre l‟Italia come una sorta di ponte tra Pechino e Bruxelles, due realtà che troppo spesso incontrano grandi difficoltà di comunicazione. Sulla visita pesava il bruciante ricordo del vertice Ue-Cina d’inizio ottobre, che fonti diplomatiche da entrambe le parti non hanno esitato a definire “disastroso”, caduto tra il fuoco incrociato dei veti cinesi sulla rivalutazione dello yuan e di quelli europei sul riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato.
Tutti temi sui quali Napolitano ha manifestato posizioni più avanzate – o più concilianti, a seconda dei punti di vista – rispetto a quelle tenute dall’Unione. Lo status di economia di mercato prima del 2016, che garantirebbe a Pechino indubbi vantaggi nelle procedure antidumping? “Anacronistico non riconoscerlo – secondo il Presidente della Repubblica – l’Europa lo sta negando per principio, e questo nodo rischia di essere interpretato come una discriminazione”. Le accuse di manipolazione di valuta, con uno yuan troppo debole che danneggerebbe l’export europeo? “Sono d‟accordo col presidente Hu Jintao nell’affermare che non è in corso alcuna guerra valutaria, ma solo problemi di equilibrio nei rapporti tra monete. La Cina è ormai anche un grande paese importatore”, ha detto ancora Napolitano. E sul fronte dei diritti umani, in piena tempesta per il Premio Nobel per la Pace assegnato al dissidente Liu Xiaobo, il Presidente della Repubblica ha sottolineato di non essere venuto in Cina per “puntare il dito su una questione specifica, anche se di grande risonanza internazionale”, pur non rinunciando a “ribadire le nostre posizioni di principio, che sono posizioni del governo e anche mie personali”.
La visita di Wen di qualche settimana prima, con la quale il premier aveva aperto l’Anno culturale della Cina in Italia, in occasione anche del quarantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra le due nazioni, si era chiusa con la firma di 10 accordi commerciali dal valore totale di 2,5 miliardi di dollari e 7 accordi governativi, e con l’impegno a portare gli scambi commerciali tra Roma e Pechino a quota 80-100 miliardi di dollari (rispetto agli attuali 40) nel giro di cinque anni. In Cina, Giorgio Napolitano ha ribadito più volte che l’Italia deve esportare oltre la Grande Muraglia “prodotti ad alta tecnologia e ad alto valore aggiunto”, una formula standard forse ormai troppo consolidata.
Roma riuscirà davvero a fare da tramite tra Pechino e Bruxelles? Difficile dire se le mosse di Giorgio Napolitano siano state lette dai vertici cinesi secondo un codice comune – che di certo un politico ex-comunista di lungo corso come il Presidente della Repubblica conosce a menadito – o siano apparse invece troppo felpate. La frase rilasciata dal capo dello Stato in finale di visita a Hong Kong sembra indicativa del suo stato d‟animo sui rapporti Italia-Cina. E il fatto che Napolitano non sia riuscito a incontrare Xi Jingping, ormai vero erede designato per la leadership a partire dal 2012, ha tutto il sapore di un’occasione mancata.
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