Il 23 marzo 2020, mentre il virus COVID-19 si diffondeva in tutto il mondo e il lockdown teneva in casa gli Italiani, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, chiedeva un immediato cessate il fuoco globale. Al pari del sentimento di solidarietà e comunità, che entrava nelle nostre case dai balconi e che ci faceva pensare, ingenuamente, a un mondo post-pandemia migliore di quello che ci eravamo lasciati alle spalle, il Segretario Generale auspicava che, se accolto, il suo appello potesse permettere alla comunità internazionale di concentrarsi sulle sfide poste dalla pandemia e, perché no, fornire un’opportunità per mettere fine ai conflitti in corso in modo diplomatico. Il primo articolo di questo numero di Human Security, però, spiega come ciò non solo non sia accaduto, ma come in alcuni contesti con il cessate il fuoco si sia assistito a un aumento della violenza e a un peggioramento delle dinamiche del conflitto. Come sottolinea Kieran Mitton, docente di Relazioni Internazionali presso il King’s College London e co-fondatore dell’Urban Violence Research Network, infatti, la natura temporanea dei cessate il fuoco “da COVID-19” e le difficoltà riscontrate nel dominare la violenza nel mondo, confermano alcuni aspetti chiave emersi in decenni di ricerca sui conflitti armati e mettono in luce alcune delle criticità principali dei processi di negoziazione e costruzione della pace.
Se le immagini di guerre e povertà che ci vengono raccontate dai media ci portano il più delle volte a guardare ai cosiddetti “stati falliti” del Sud del mondo, l’attuale pandemia ha forzatamente riorientato il nostro sguardo, svelando le debolezze del sistema internazionale nel suo complesso, ma anche e soprattutto di quegli “stati forti” che, in tempi “normali”, vantano una posizione di leadership economica, militare e culturale. Partendo dal caso degli Stati Uniti e in particolare dal rapporto tra il Governo federale e le nazioni degli Indiani d’America, l’articolo di Charles Geisler, Professore Emerito di Sociologia dello Sviluppo presso la Cornell University, accompagna i lettori in una riflessione sul significato di fallimento statale e sul nesso tra sicurezza nazionale e salute pubblica. Anche Francesca Fortarezza, dottoranda presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e autrice dell’articolo successivo, si interroga questo rapporto e lo fa concentrandosi sugli “effetti collaterali” delle misure “straordinarie” che i governi di tutto il mondo hanno messo in atto per far fronte a una minaccia “eccezionale” e sul ruolo dei difensori dei diritti umani come anticorpi contro la crisi sociale che stiamo attraversando.
Leggendo le parole di Geisler e Fortarezza diventa chiaro come, nei fatti, una pandemia sia molto di più di un problema puramente sanitario e, di conseguenza, richieda un’azione articolata da parte di una moltitudine di attori. In un’ottica simile, l’approccio One Health, promosso dall’iniziativa Global Health Security Agenda, riconosce l’interconnessione tra esseri umani, animali e ambiente e promuove un approccio collaborativo, multi-settoriale e transdisciplinare, per raggiungere uno stato di salute ottimale e sistemico per il pianeta. Ce lo raccontano Micol Fascendini, Daniela Rana, Elena Cristofori ed Elena Comino che, nel loro articolo per Human Security, condividono con i lettori l’esperienza del Comitato Collaborazione Medica (CCM) in Kenya, nella contea di Marsabit, dove il CCM è impegnato a promuovere la salute e la resilienza delle comunità pastorali. Come si evince dai risultati della ricerca interdisciplinare condotta dal team del CCM, per prevenire e gestire infezioni ed epidemie è necessario comprendere non solo gli aspetti medici della salute umana, ma anche quelli socio-culturali della salute umana. Di opinione simile è Jerome Ntege, dottorando presso la Makerere University, che nel suo articolo riprende e approfondisce da un’ottica antropologica le riflessioni sul rapporto tra sicurezza nazionale e sicurezza umana raccontando l’esperienza e le percezioni degli abitanti del distretto di Bundibugyo, al confine tra Uganda e Repubblica Democratica del Congo, nell’affrontare l’epidemia di Ebola del 2007.
Il tredicesimo numero di Human Security si chiude con la testimonianza di chi, da anni e ben prima dello scoppio della pandemia di COVID-19, si occupa di salute ed emergenze sanitarie in contesti di conflitto e insicurezza diffusa: se Giovanna De Meneghi ed Edoardo Occa di Medici con l’Africa CUAMM evidenziano come il lavoro degli operatori sanitari si inserisca in un contesto relazionale e sociale che non può essere ignorato, Anna Maria Abbona Coverlizza ed Erika Vitale di MedAcross forniscono un esempio concreto di come la cooperazione allo sviluppo in ambito sanitario richieda una flessibilità e una capacità di adattamento notevoli, soprattutto quando la realtà operativa diventa quella di una pandemia globale.
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