La Risoluzione 1325 su donne, pace e sicurezza adottata nel 2000 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha sicuramente contribuito a mettere in luce il ruolo delle donne nei conflitti contemporanei e il loro contributo fondamentale nei processi di pace. Nonostante siano passati più di vent’anni, però, rimangono importanti zone d’ombra e criticità. Come osserva in apertura di questo numero di Human Security Evelyn Pauls – Impact Manager presso l’LSE Centre for Women, Peace and Security – gran parte del (crescente) interesse di accademici, professionisti e decisori politici per il tema è ancora spesso inquadrato in chiave sessista e tende a ignorare le motivazioni e le esperienze delle combattenti donne, il che troppo spesso porta al ritorno e alla normalizzazione dei ruoli di genere tradizionali lasciando inascoltati i bisogni e le richieste di tutte quelle donne che hanno imbracciato le armi, allontanandosi dagli stereotipi della narrativa dominante.
Continuando la riflessione, Leena Vastapuu – Planning and Reporting Officer presso la Missione EUAM RCA e autrice di uno dei capitoli del nuovo Routledge Handbook of Feminist Peace Research – si interroga sul perché le ex-combattenti donne risultino ancora largamente escluse o quantomeno sotto-rappresentate nei processi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (DDR). Riassumendo le principali spiegazioni offerte dalla prospettiva femminista, Vastapuu sottolinea come le ragioni di tipo ideologico condannino spesso le ex-combattenti a un limbo di oblio in cui non vengono reputate abbastanza soldati per poter accedere ai processi formali di DDR e, contemporaneamente, non risultano abbastanza civili agli occhi delle organizzazioni e movimenti di donne più conformi all’immagine della “madre amante della pace”.
In linea con le osservazioni di Pauls e Vastapuu, Anna Toniolo – laureata in Scienze Internazionali presso l’Università degli Studi di Torino – guarda alle politiche e pratiche di contrasto all’estremismo violento, concentrandosi sul caso del Kosovo e domandandosi se, e fino a che punto, il piano di de-radicalizzazione messo in atto dal governo kosovaro a partire dal 2019 tenga conto e includa nelle varie fasi della programmazione le diverse esperienze e i molteplici ruoli delle donne che si sono unite, volontariamente o meno, allo Stato Islamico.
L’articolo seguente, a firma di Gioachino Panzieri – Junior Research Fellow del programma di Genere Euro-Mediterraneo presso l’Istituto Europeo del Mediterraneo (IEMed) – pone l’accento sugli schemi di violenza sessuale perpetrata nei contesti di detenzione in Siria per analizzare le cause e gli effetti della militarizzazione del sesso e, al contempo, riflettere su come le relazioni gerarchiche di genere informino le regole della guerra e rispondano a interessi politici che danno loro significato, facendosi strumento del mantenimento del potere attraverso lo sfruttamento, l’abuso e il controllo di corpi subalterni.
E sono proprio lo sfruttamento, l’abuso e il controllo dei corpi che trasformano in “percorsi di violenza” i tentativi delle lavoratrici domestiche etiopi di migliorare le proprie condizioni di vita emigrando in Medio Oriente, come racconta nel suo contributo a Human Security Silvia Cirillo – dottoranda in Global Studies presso l’Università di Urbino Carlo Bo. Spostando il focus in America Latina, l’autrice dell’articolo che segue, Marta Michelini – che attualmente lavora per COOPI dopo aver collaborato a un progetto di reinserimento lavorativo di persone desplazadas e in condizione di vulnerabilità in Colombia – affronta il tema delle discriminazioni e violenze di genere in un contesto, come quello colombiano, in cui la pandemia si è intersecata a una situazione post-conflitto già di per sé caratterizzata da una diffusa insicurezza umana.
Infine, l’ultimo articolo di questo numero di Human Security, scritto da Elisa Armando – studentessa di Antropologia della guerra e della violenza presso lo University College di Londra e contributor presso The Women’s Rights Initiative di Kampala – dà voce alle/ai rappresentanti di dodici organizzazioni nordugandesi che, a partire dalla fine del conflitto nella sub-regione Acholi, si sono impegnate in attività di empowerment economico delle donne affinché all’indipendenza economica segua l’emancipazione individuale e sociale dal sistema patriarcale dominante.
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