Il lancio della Belt and Road Initiative (BRI) nel 2013 ha permesso alla Cina di estendere la propria influenza in Asia interna, controbilanciando al tempo stesso le aspirazioni per una zona di integrazione politica ed economica promossa dalla Russia – l’Eurasian Economic Union, EAEU – con il chiaro intento di ristabilire la propria influenza nello spazio post-sovietico. L’Asia interna è dunque oggi l’arena in cui diversi attori, tra cui la SCO (Shanghai Cooperation Organization), l’Unione Europea tramite l’Eastern Partnership, ma anche la NATO e gli USA, cercano di espandere ed affermare la propria influenza. Sebbene i principali obiettivi della BRI siano l’inter-connettività dei trasporti, il finanziamento delle infrastrutture e l’integrazione dei mercati finanziari, le azioni intraprese hanno profonde ricadute anche in ambito sociale, ambientale e persino linguistico. Fino ad oggi i progetti people-to-people, che pure sono un pilastro della BRI, hanno ricevuto scarsa attenzione nell’attribuzione dei fondi, quasi totalmente destinati al sostegno degli interventi economici e infrastrutturali. A dieci anni dal lancio della BRI è il momento per una riflessione su come questi progetti impattino sulle comunità locali e sulle minoranze che in Asia interna hanno rilevanza anche transfrontaliera, come nel caso degli uighuri, dei kazaki, o dei tajiki presenti sia in Cina che nei paesi confinanti. La sempre più pervasiva influenza cinese in questi territori, per decenni parte o satelliti dell’Unione Sovietica, come nel caso della Mongolia, ha avuto riflessi importanti, ma non imprevedibili, anche nel campo delle politiche linguistiche e dell’istruzione. La dimensione religiosa, che storicamente ha svolto una funzione di collante in queste aree, collega di fatto le minoranze transfrontaliere – mongoli, uighuri, tajiki – delineando spazi di azione e reazione alle sempre più accentuate politiche di controllo delle autorità cinesi.
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