Nonostante l’adozione di un’apposita Convenzione da parte delle Nazioni Unite nel 1948, l’impiego del termine ‘genocidio’ continua a generare confusione e ambiguità – non solo in ambito legale – come sottolineato da Marzia Ponso, ricercatrice e docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Torino. Se la Convenzione riporta infatti una definizione ristretta, che esclude le vittime appartenenti a minoranze politiche, i tribunali penali internazionali degli anni novanta hanno fornito una ridefinizione più ampia del fenomeno. Se la distinzione rispetto al ‘democidio’ appare netta, il riconoscimento di molte tragedie storiche come genocidio risulta ancora foriero di scontri e divisioni profonde.
È ancora oggetto di controversie, ad esempio, il caso bosniaco, raccontato in questo numero di Human Security da Arianna Piacentini, ricercatrice post-doc presso l’EURAC Research di Bolzano. Le guerre jugoslave dei primi anni novanta diedero sfogo alla strumentalizzazione politica delle differenze identitarie mentre le mire delle nuove potenze regionali portarono all’uso della pulizia etnica in Bosnia ed Erzegovina come strumento di conquista e consolidamento territoriale. L’eccidio di Srebrenica del 1995 rappresenta l’apice di un processo di cancellazione identitaria lungo almeno un decennio, ma parlare di genocidio rimane terreno di scontro acceso mentre le tensioni nazionalistiche continuano ad alimentare la narrazione politica regionale.
È invece generalmente riconosciuto il carattere genocidario del Metz Yeghern, lo sterminio degli Armeni nel 1915, anche se – come sottolinea il giornalista freelance Simone Zoppellaro – esso rappresenta un caso emblematico e per molti versi estremo di politicizzazione di un fatto storico. Già Raphael Lemkin aveva preso a riferimento le similitudini tra Shoah e Metz Yeghern per coniare il neologismo ‘genocidio’, eppure, il riconoscimento di questa tragedia come tale rimane al centro di crisi diplomatiche, tensioni politiche e silenzi – in Turchia e non solo.
Tristemente famoso è anche il caso del Ruanda che, insieme alla Shoah è stato spesso elevato a paradigma delle dinamiche genocidarie. A venticinque anni dal genocidio, Caterina Clerici ed Eléonore Hamelin, rispettivamente giornalista e video-giornalista freelance, raccontano la realtà delle donne ruandesi, tra i traumi del passato e il boom economico di oggi. Laddove le atrocità del 1994 avevano lasciato in eredità oltre 800mila morti, la quasi totale estraneità delle donne nella perpetrazione dei massacri ha permesso di elevarle a protagoniste del processo di ricostruzione nazionale. Mentre il Tribunale penale internazionale del Ruanda ha riconosciuto per la prima volta lo stupro come arma genocidaria, le migliaia di vittime e i bambini nati a seguito di quelle violenze restano però il simbolo di ferite profonde che, ancora oggi, la società civile fatica a ricucire.
Spinosa anche la questione della memoria storico-giuridica dei massacri del 1965 in Indonesia e della persecuzione degli Ebrei in Italia durante la Seconda guerra mondiale. Nel suo articolo, Guido Creta, laureato in Storia indonesiana presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, descrive come lo sterminio di mezzo milione di Indonesiani per mano del regime di Suharto rimanga tuttora avvolto in un cupo silenzio, seppellito da definizioni legali, considerazioni geopolitiche e negazionismo sistematico – con evidenti conseguenze sul contesto indonesiano attuale. Come sottolinea Creta, infatti, se è vero che definizioni legalistiche e processi di riconciliazione possono essere ottimi strumenti, non sono sufficienti per superare una tragedia simile se non accompagnati da una ricostruzione storica rigorosa e dall’individuazione dei responsabili. Di simile avviso è Nicolò Bussolati, avvocato e dottorando in Diritto penale internazionale, che nel suo articolo ripercorre la storia della persecuzione razziale in Italia per evidenziare come la mancanza di sanzioni o quanto meno di un momento di valutazione pubblica dei crimini commessi durante il periodo fascista lasci una profonda e pericolosa lacuna nella memoria storica italiana.
Per quanto gli orrori commessi in passato abbiano creato, almeno in linea di principio, uno stigma storico, non mancano oggi i casi di persecuzione su base identitaria, talvolta etichettati come ‘genocidi’ dalla società civile e dai media. Fra questi, ancora in evoluzione risulta la vicenda dei Rohingya, in Myanmar: le brutali campagne di terra bruciata condotte dal Tatmadaw a partire dal 2017 hanno causato la morte di migliaia di civili, lo stupro di centinaia di donne e l’arresto di diverse centinaia di persone. Come racconta Kyaw Zeyar Win, ricercatore presso il Peace Research Institute di Yangon, però, la “crisi dei Rohingya” non è un fenomeno nuovo ma il tragico risultato di politiche e pratiche istituzionalizzate di esclusione e discriminazione che non dovrebbero venire oscurate da dalla drammatica situazione umanitaria dei campi rifugiati in Bangladesh.
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